Quando venni lasciato, mi infilai in questo buco nero da cui pensavo di dover uscire mano nella mano di nuovo con lei. L’obiettivo può suonare comprensibile – “dare un’altra possibilità alla relazione” – ma sotto la sua scorza era malsano, così come i passi necessari per raggiungerlo. A ben vedere, anche la relazione, per com’era nata e si era sviluppata, aveva delle zone d’ombra su cui evitavo di posare gli occhi, perché, ad una visione approfondita, in quelle oscurità sapevo si sarebbe riflessa la mia persona.
Partì tutto con una mia infatuazione. Desideravo la sua compagnia e il suo corpo, e, più tutto, agognavo la sua ammirazione. Ci fu un tira e molla, e una pausa lunga, in cui io pensavo a lei e lei pensava ad altri ragazzi, e mentre lei cercava riposte ai suoi dubbi, io evitavo domande alle mie sicurezze. Dal momento in cui decidemmo di tornare insieme –un bel ricordo: in macchina, dopo un’interminabile chiacchierata e un bacio appassionato- mi sentii in dovere di dimostrarle qualcosa. Se non altro, che i dubbi sulla mia persona erano stati un errore e una perdita di tempo. Ero quello giusto per lei perché lei era quella giusta per me. Avevo visto troppe serie tv adolescenziali? Probabile. Nei suoi occhi presi a cercare conferme di una stima che non riuscivo a provare per me stesso. E quando lei –in ragione o in torto ma in ogni caso con legittimità- azzardava una critica, sentivo come se tutta la mia persona fosse rimessa in discussione…Non andavo più bene? Io valevo in relazione alle medaglie che lei mi posava sul collo. Volevo diventare talmente perfetto che, a guardare il resto del mondo, si sarebbe annoiata; volevo che fosse libera di scegliere e che, in questa libertà, scegliesse sempre e costantemente me.
Io ero imperfetto. Scansafatiche, indolente, per niente appassionato. Non sopportava questi lati di me e io odiavo che lei non sopportasse questi lati. Cresceva la rabbia, provavo a migliorarmi, per un periodo ci riuscivo, ma poi ricadevo in quella che era la mia sostanza, e allora avevo paura di perdere lei e con lei le mie medaglie. Lei cominciava a scegliere altro, e, più sceglieva altro, più tentavo di fare in modo che scegliesse di nuovo me. Stavo costruendo una gabbia. “Andiamo ad una festa?”. “Meglio se stiamo io e te”. “Andiamo all’evento X?”. “Meglio se stiamo io e te”. “Andiamo in biblioteca a studiare?”. “Studiamo qui io e te”.
Libera di uscire dalla gabbia, il punto era che non le permettevo di uscirci in mia compagnia: allora lei scelse tutto il resto e il mondo mi crollò addosso.
Dovevo riconquistarla. Più dell’amore, valeva come simbolo e primo riferimento. Diventò quindi una sfida, una sfida che avrei perso continuamente, riducendola di conseguenza ad un’ossessione.
Studiavo i suoi movimenti attraverso i social. Si frequentava con qualcuno? Se venivo a conoscenza della sua presenza in un locale, proponevo di andarci. Sapevo che rinunciare al nostro rapporto era stata una scelta difficile. Sapevo, speravo, pregavo, che ci stesse ancora rimuginando.
Non era così.
Passavo le notti a sognare scene di me e lei in lacrime, a sussurrarmi: “Oh, sei tu il migliore del mondo, come ho fatto a non accorgermene?”. Ogni tanto ci sentivamo…era un problema restare amici? No, mentivo a me stesso, certo che no. E quando mi si faceva notare che esistevano altre ragazze, annuivo e tacevo, malamente sicuro che le altre ragazze non corrispondevano ad un’altra sfida. I miei pensieri su di lei si fecero netti e incoerenti: a volte le volevo bene, e nei suoi occhi e nelle sue movenze di sempre rivedevo l’unica che avrebbe potuto attrarmi, l’unica che avrei voluto ascoltare e che avrei salvato dalle cadute, e a volte la odiavo con forza, la definivo tra me e me irrispettosa, stupida, troia e sciocca, e quanta era la voglia di causarle una caduta qualsiasi.
Le regalai una storia a puntate in cui era la protagonista, convinto all’epoca che un eventuale talento riconosciuto mi potesse salvare dal mare in cui affogavo. “Sei il mio salvagente!” stavo urlando. Me lo disse, che ero bravo, ma io continuai ad affogare.
Non molto tempo dopo mi confessò, dopo una certa mia insistenza, che era andata a letto con un conoscente comune. Non dormii per due giorni, in preda al dolore e alle proiezioni di lei avvinghiata ad un altro. Aveva completamente voltato pagina…come avevo fatto ad accorgermene prima? Continuavo a vivere di un passato che non sarebbe tornato. Lei aveva smesso di amarmi. E io? L’amavo ancora? Fu quella la prima domanda giusta dopo anni di affermazioni. Mi risposi che sì, l’amavo, ma di quell’amore non rimanevano altro che ricordi. Ora lei era un’altra persona, ed era giusto che lo diventassi anch’io. Rimase solo il duro compito di lasciar andare l’ossessione, di accettare la sconfitta della sfida. Il fondo, eccolo: più giù di così non potevo andare.
Tentai di risalire, e un po’ alla volta, grazie alle frasi ben piazzate di qualche saggio amico (“Se la mia ragazza va con un altro, non penso che stia cercando qualcosa di meglio ma qualcosa di diverso”), grazie a qualche altra ragazza non meno affascinante negli occhi e nelle movenze (un fascino diverso, non minore o maggiore) e grazie al tempo, eccomi lì, con la testa fuori a respirare. Era il caso di crescere: di imparare a nuotare con le proprie gambe e le proprie braccia.
Oggi lei sta bene e io sto bene. Non la penso più in maniera netta e incoerente. E’ una donna con le sue peculiarità e le sue incongruenze. Ed è stata una ragazza che ho amato in un periodo in cui, forse, non ero ancora pronto per l’amore.