La mia notte prima degli esami non fu così romantica. Guardai un film, “Il Signore degli Anelli – Le Due Torri”. Amavo lo spettacolo della battaglia al fosso di Helm. La prima prova era il tema di italiano e non potevo certo ripassare qualcosa. Sperai di trovare delle tracce amichevoli e mi concentrai sulla resistenza degli uomini guidati da Aragorn.
Eravamo stati sistemati nell’atrio del quarto piano; banchi sparsi ed equidistanti a riempire lo spazio fino agli angoli. Mi posizionai tra le ultime file, giusto come riscaldamento per la seconda prova di matematica. Avevo il vocabolario, i fogli di bella e di brutta copia timbrati, la penna nera. Consegnarono le fotocopie con le tracce. Questa no, questa no, questa no. Carducci? No. Tornai alla prima. Un saggio breve sulle morti sul lavoro. Lessi gli articoli. Pensai che si poteva fare. Purtroppo trassi fin troppe idee e spunti, che non potevo in alcun modo confermare attraverso una ricerca. Non mi importava; mi ricordai del tema di italiano in quinta elementare, dove mescolai una storia d’amore alla caduta dell’Impero Romano. Non avevo frenato le mie fantasie e avevo preso Ottimo. Scrissi di religione, di differenze strutturali tra nord e sud Italia, dell’evoluzione della strumentazione. Quindici quindicesimi, sto arrivando!
Quando consegnai, ero altamente soddisfatto della mia intelligenza. Uscendo dalla scuola incontrai la professoressa di religione, una signora con le guance piene e gli occhialetti piccoli, i capelli tagliati corti. “Pensa che abbia fatto bene a legare il cattolicesimo alle morti sul lavoro? Non è che sono andato fuori tema?”. Restò in silenzio qualche secondo e disse che le pareva un buon collegamento. I connotati del viso in realtà confessavano: non ne ho idea.
Prima della prova di matematica, guardai “Il ritorno del re”. Matematica avevo smesso di studiarla al secondo anno, e non aveva senso ripassare nulla. Non ne capivo niente. Avevo studiato una tattica per non consegnare il foglio bianco –l’unica cosa a premermi- e quindi non mi rimaneva che sfogare la voglia di rivedere le ultime vicissitudini e il lieto fine del Signore degli Anelli.
La mattina dopo, in una tensione di scatti molto più impetuosa, riuscii a garantirmi lo stesso banco del tema di italiano. Non che mi servisse per forza –la mia tattica non prevedeva la copiatura sul campo- ma non si sa mai. Magari, attraverso qualche pissi pissi, sarei riuscito a recepire qualcosa in più.
Cosa scrissi?
Prima di entrare detti un foglio bianco e una penna ad un compagno -bravo in matematica, certo, ma anche mio amico e pronto a prendersi qualche rischio- e gli chiesi di memorizzare due, tre esercizi per poi andare al bagno e riscriverli. Avrebbe nascosto il foglio sotto lo scopettino, e io sarei andato successivamente in bagno, a leggerlo. Non comprendendo niente dei segni e dei processi che mi si paravano davanti, memorizzai cosa scrivere come se fossero delle immagini da ricopiare.
Una volta completato il piano, aspettai quaranta minuti, facendo finta di ragionare sugli strani simboli che avevo davanti, e consegnai, altamente soddisfatto della mia capacità di architettare frodi.
La sera prima della terza prova, provai a ripassare. Ero decisamente indietro in storia, non troppo in filosofia. Avevo buchi enormi in mineralogia, ma ero un missile di nozioni in vulcanologia. Mi scolai tre Red Bull con l’intenzione di stare alzato tutta la notte, fino a che, verso l’una e mezza, gli occhi mi si chiudevano da soli e optai per il riposo garantito dal letto.
Non ho ricordi delle domande, se non di quella sui terremoti, dove faticai a restare dentro gli spazi. Credo di essermela cavata sulle altre, perché presi 11/15. In matematica andò come mi aspettavo: 7/15. La delusione più cocente fu italiano, dove mi venne appioppato un 6/15. Un totale di 24, con la sufficienza che si assestava sul 30. Mi si chiuse lo stomaco. Non potevo essere bocciato di nuovo. Era già successo due volte, i miei avevano pagato profumatamente una scuola privata per recuperare un anno, e adesso, ritornato per il quinto decisivo anno alla pubblica, non era ammissibile buttare all’aria tutti quei soldi. Come li avrei guardati in faccia? Cosa avrei raccontato ai miei amici? Ehilà banda, sapete la novità: non sono solo un cazzone, sono proprio un idiota!
Mia madre, appena seppe del 24 agli scritti, mi disse che se non avessi passato quell’anno, sarei andato diretto a lavorare (lo diceva ogni anno ma, così vicino al traguardo, il rischio mi arpionava alla gola e non mi lasciava respirare).
Studiai tutti i giorni con regolarità, senza fare nottate. Mi ritrovai il giorno prima dell’esame orale a dirmi: “Ormai quel che so, so.”. La mattina, nell’attesa della convocazione davanti alla commissione, la filosofia Ormai quel che so, so venne spazzata via dall’ansia e dai timori. Mi accorsi di non sapere nulla del “Cinque Maggio” di Manzoni, se non che era una poesia dedicata alla morte di Napoleone.
Il mio cognome echeggiò tra le pareti dell’atrio del secondo piano. Entrai in classe, lo sguardo dei professori seduti in fila sui banchi come un plotone, e io che mi sedetti davanti loro. Respirai, e l’ansia si trasformò in concentrazione. Cominciai con la mia tesina, l’argomento era la seduzione, arte di cui all’epoca ero completamente all’oscuro. Non incespicai troppo, riuscii a fare i collegamenti necessari, non feci brutte figure con l’inglese. Presero parola i professori. Quella esterna di italiano analizzò il mio tema: “Non si capisce assolutamente niente” disse. Mi morsi la lingua. Pensavo che lei non capisse assolutamente niente, il che era diverso. Ma numero uno, probabilmente avevo torto, e numero due, dirlo non mi avrebbe aiutato nell’obiettivo della promozione. Poi mi chiese di dirle qualcosa del “Cinque Maggio”, ovviamente. Risposi con una frase e un lungo e imbarazzato silenzio.
Non era nata una grande intesa.
La professoressa interna di matematica mi spiegò cosa avevo sbagliato dello scritto. Tanto sapeva che per me era incomprensibile; lei parlò e io annuii, recitando una profonda convinzione. Mi chiese un argomento di fisica che avevamo concordato in precedenza e che io snocciolai con sicurezza, avendolo imparato a memoria con la stessa metodologia usata per il compito di matematica (anche fisica avevo smesso di studiarla in seconda superiore). La professoressa di scienze mi amava e io amavo lei. Esterna, aveva un viso fino e dei capelli mossi, corti. Gli occhi erano buoni e dolci. Mi fece i complimenti per la terza prova e io la ringraziai, e lei mi chiese di parlare anche dei vulcani e allora io le dissi tutto quello che sapevo e anche di più e lei mi fece i complimenti e io le dissi grazie di nuovo, grazie mille, grazie duemila, mia adorata.
Prima di finire si insinuò da sinistra, con la sua faccia da talpa, il professore di eduzione fisica. Voleva farmi una domanda. Riguardava la gita che avevamo fatto nel lontano ottobre a Budapest. Avevamo giocato una partita di calcetto contro una quinta del posto e avevamo perso. Il professore fece notare che, se avessero giocato per più tempo i più bravi, avremmo portato a casa il risultato. Pensieroso, annuii lentamente, poi risposi: “Beh, professore. Magari sì, ma siamo una classe. Non è il caso che tutti abbiano la possibilità di giocare? Indipendentemente dal risultato”. La professoressa di scienze batté le mani e chiese quanto fossi un bravo ragazzo. Io chiesi tra me e me quanto amassi quella professoressa non solo come professionista ma proprio come donna. Il presidente di commissione, sempre in disparte e silenzioso, annunciò che avevamo finito. “E’ più che sufficiente” aggiunse, accompagnandomi alla porta.
Non so se intendesse darmi un indizio con quella frase: il voto dell’esame fu di sessantuno centesimi. Visto come si era messa dopo gli scritti, lo considerai un grande successo. I miei fecero i salti di gioia, e io pagai un giro da bere ai miei amici. La mia dignità era salva, potevo riprendere a respirare. La linea tra un cazzone e un idiota è sottile, ma non l’avevo ancora varcata.