Non mi andava di stare lì a commentare la preparazione di Matteo –mio figlio- in vista del saggio di flauto dolce. Non era un buon periodo, certo. Mara, mia moglie da tredici anni e tre mesi e quattro giorni –così per mettere in chiaro che sono uno preciso che si ricorda le date importanti e che è piuttosto capace di far calcoli- ultimamente era diventata assillante. Si aspettava che assolvessi alle necessità di famiglia con la stessa solerzia di quando risolvo le beghe di lavoro. Sono un consulente informatico, uno a cui piace tutto sommato quello che fa. Ecco: i clienti mi piacciono un po’ meno, hanno mille capricci e altrettanti grilli per la testa, ma la differenza è che con loro devo fingere di andare d’accordo per un tempo limitato: devo sorridere e comprenderli a più non posso, perché così facendo me li tolgo di torno il prima possibile. Mia moglie, invece, vorrei renderla felice per vederla felice…Felice è un’illusione? Vorrei soddisfarla, perlomeno.
Ecco un esempio per non sembrare il classico marito lanciato verso la mezza età, pronto a lagnarsi di ogni rapporto umano instaurato nel raggio del suo affetto.
Un mese prima – un mese e due giorni- Mara mi ha chiamato per chiedermi di andare a prendere un panettone. Il periodo era quello e le serviva un dolce per una cena improvvisata di mio figlio e i suoi amici. Tanto il supermercato è per strada, ha detto. Vero, però basta qualche minuscola interferenza a rendere un percorso lineare una sequela di ostacoli. Può succedere che un cliente, tartassato dalla richiesta di un suo corrispettivo cliente -o magari no: magari è solo la richiesta modesta di un capo che aggiunge alla fine “…ma possiamo posticipare a domani se non si riesce” e il dipendente non se la sente assolutamente di ammettere che non si riesce e allora parte la tiritera di e-mail e chiamate urgenti– mi tenga al telefono più del previsto, quei quaranta minuti in più, e io finisca in macchina che ho solo dieci minuti per raggiungere il supermercato prima della chiusura, e quindi non penso neanche di provarci, perché ce ne vogliono dieci solo per arrivare lì, e allora allungo il tragitto verso uno dei supermercati sulla provinciale, il cui orario di chiusura è posticipato alle nove, per la gioia dei dipendenti che a quell’ora hanno la faccia di zombie con la gastrite, e può sempre essere che mentre arrivo, piuttosto trafelato e in preda ad attacchi di ripensamento sulle ultime manovre lavorative, allo scomparto gargantuesco dei panettoni, ne prenda uno con solo uvetta piuttosto che con solo canditi, ricordando sì che mio figlio odia qualcosa, ovvero l’uvetta, ma confondendolo con quello che odiava mio padre, ovvero i canditi. Vi sembra impossibile confondere i gusti del figlio con quelli del padre? E’ andata così, ve lo assicuro.
Mara ha iniziato con i rimproveri e le accuse mascherate da prese in giro, quando ancora il vociare degli amici di Matteo sovrastava la tensione affilata delle nostre occhiate.
Nel lettone si è fatta sentire, mi ha detto che era una vergogna, che bastava un minimo di attenzione, che sono sempre pronto a concentrarmi su altro e non su di loro, e io non capivo come potesse dire una cosa del genere, dato che, nel bene e nel male, sono sempre stati il mio primo pensiero quando mi sveglio e l’ultimo prima di prendere sonno. Le ho detto che era ingiusta, scorretta e capace solo ad appioppare ordini e poi condannare. Non lo pensavo davvero –Mara ha una carriera anche più brillante della mia come dermatologo e su Matteo mantiene alte le premure e la severità- e con ogni probabilità neanche lei pensava quello che le è uscito di bocca. Da qualche mese, le nostre intese si erano incrinate di un millimetro, e l’episodio del panettone, unito a tanti piccoli altri episodi simili, avevano trasformato il millimetro in un centimetro. All’indomani del concerto di flauti della scuola erano ormai cinque giorni che spiaccicavo solo poche parole di circostanza. Quando Matteo ci ha chiesto di ascoltare qualche brano, per carpire eventuali insicurezze, ho lasciato il soggiorno e la sua luce calda, la luce di una lampada a muro di vetro smerigliato scelta da Mara, e me ne sono andato serio giù in taverna. La porta è in un intermezzo tra lo stesso soggiorno e la cucina. Ho fatto le scale -che sono ancora in cemento grezzo e che Mara ripete da anni di sistemare- cercando di trasformare i passi in silenzi, e ho sentito la voce di lei assicurare a Matteo che: “papà ha bisogno di stare solo ogni tanto, non c’è nulla di cui preoccuparsi”. Mi sono buttato sul divano con la sensazione di essere un pessimo padre e un marito inefficace: se non per qualche calcolo azzeccato davanti ad un computer, un uomo dimenticabile.
Di tutte le discussioni più o meno litigiose che avevo avuto con Mara in quei giorni, il disguido del panettone ha avuto un piccolo ruolo nei miei movimenti in taverna. Cullato dalla sola e lieve illuminazione proveniente dai contorni della porta in cima alle scale, sono stato un po’ disteso a pensare. Niente di ordinato o di particolarmente logico, una sequela di immagini della mia famiglia, e poi di me, di Pasqua di qualche mese prima e del Natale imminente, sbalzi temporali di un passato autobiografico e di un futuro immaginato. Sono arrivato a ripensare a mio padre nelle svariate tavolate imbandite delle feste mentre malediva i canditi. Era un uomo minuto e sincero, e la sincerità lo ha sempre reso un po’ distaccato. In ogni caso ci siamo voluti bene e mi manca.
Gli occhi mi si sono mossi in mezzo alla penombra e si sono posati senza troppa fatica sugli scatoloni che teniamo tra il divano e il camino di pietra. Ci sono i cimeli di famiglia, rinfusi al loro interno ma ben organizzati tra quelli nostri, e quelli solo di Mara, e quelli solo miei, custoditi nell’unica scatola marrone. Visto il ricordo così nitido, mi sono alzato e, movimentando qualche cianfrusaglia di mezzo –un posacenere di pietra e due sacchetti con dei vecchi giocattoli di Matteo-, ho scoperchiato il rifugio delle prove di quel ricordo.
Mi sono aiutato con la torcia del cellulare. Piegato sulle ginocchia, ho pescato la raccolta di foto della mia laurea. Io e mio fratello, mia mamma e mio padre, tutti ben vestiti. Avevo il viso che sembrava essere stato risucchiato dalle calorie e mi ostinavo a tenere lunga una barba che non aveva titolo di definirsi tale. Mia mamma aveva il suo vestito da cerimonia, un unico pezzo in cotone blu notte. Il sorriso di mio fratello era, come al solito, tra l’annoiato e il sagace. Aveva sicuramente più capelli di ora.
Ho tirato fuori la lettera di una mia amica delle superiori, Martina, che in quattro facciate aveva dato la definizione pratica del nostro rapporto, e la mia pagella di terza media. Distinto in italiano, ottimo in matematica, ottimo in educazione fisica, sufficiente in francese. Poi un faldone, un malloppo di fogli riparati dalla polvere da una rilegatura plastificata. E’ scivolato un foglio protocollo che ho raccolto: era un mio vecchio tema di italiano, di quando frequentavo la seconda media. Me lo ricordo perfettamente, era stato un successo e avevo finito per leggerlo davanti a tutta la classe. Mi sono ridisteso sul divano, spiando quelle parole incerte, ammonticchiate sulla metà di sinistra, macchiate o cancellate qua e là dalla penna rossa della professoressa Ercoli.
Prima di tutto c’era la consegna: Racconta un episodio particolare avvenuto durante l’estate. Poi il titolo in stampatello: Natale in Agosto. E sotto, l’attacco di un dodicenne preso da uno sfogo narrativo: Mio nonno Ruggero è sempre stato antipatico, ma da quando è malato gli vogliono tutti bene. Ha l’alzaier.
L’estate del ’94. Alla diagnosi era seguita una serata di parole e sconforto da parte dei miei genitori, soprattutto di mia madre che era la figlia. Sul tema avevo scritto: nonno tratta tutti un po’ con cattiveria e quindi all’inizio non ho capito come mai è un problema se si dimentica chi è. Ho sorriso della mia logica infantile.
Il medico aveva consigliato noi familiari di creare delle situazioni confortevoli, di essere pazienti quando il nonno dava segni di confusione o di difficoltà. Di non associare ogni singolo frammento della persona alle pene di una malattia. Abbiamo iniziato a volergli bene ma solo perché ce lo ha detto il medico.
Mi è venuto in mente che era una sorta di Scrooge, mio nonno. Con gli occhi gonfi, la voce arcigna, le braccia spesse e le mani che ricordavano badili, aveva sempre qualche critica da appioppare a mio padre -e mio padre aveva sempre avuto l’indomita capacità di non prendersela- e a mia madre –e lei sì che si arrabbiava- e in generale aveva sempre una gran voglia di lamentarsi. Io e mio fratello lo odiavamo, principalmente perché era tirchio con la mancia. Scuciva raramente qualcosa, e solo dopo qualche compito ingrato. Me lo ricordo: diceva sempre che i soldi guadagnati sono migliori di quelli caduti dal cielo. E mio fratello domandava sottovoce al mio orecchio: A te hanno mai chiesto da dove arrivano i soldi?
Aveva già iniziato a sbagliare i nomi ma quell’estate capitava che non ci riconoscesse più. Ci osservava, disteso sul divano del suo appartamento, come se fossimo minacce; oppure dei fantasmi, esseri di un mondo parallelo che in quella realtà non potevano interferire. Una volta, mentre nostra madre era scesa a parlare con un vicino della situazione, il nonno mollò delle scoregge, una raffica di quattro o cinque rombi di motore, e io e mio fratello ci mettemmo a ridere, muovendoci alla rinfusa per il salotto, e lui ci trattò con la stessa indifferenza che un orso polare riserva al freddo.
L’idea venne a mio fratello, lo spirito creativo della famiglia. Visto che non si sapeva quanto sarebbe durato, e visto che durante i ritrovi di Natale nonno tendeva a scalfire la sua corazza (arrivava a darci diecimila lire a testa), perché non organizzare un Natale anticipato? Mamma ha detto che si poteva fare e quindi lo abbiamo fatto!
Tirammo fuori gli addobbi dallo scantinato e ci mettemmo a montarli in giro per il salotto, mentre nonno faceva il riposino. L’albero era stato sistemato in un primo momento a casa nostra e poi portato direttamente da me e mio padre in macchina. Inizialmente mio fratello aveva proposto di indossare dei maglioni, ma, dopo una prova sotto il sole d’agosto, aveva deciso che magliette e pantaloncini sarebbero andati benone. Il panettone lo ordinammo alla pasticceria di fiducia, ricordo che era senza uvette: mio figlio ha ereditato i gusti dallo zio.
Per quanto riguarda il regalo…
…Ci abbiamo pensato a cosa poteva volere il nonno e allora, su suggerimento di mamma, abbiamo preso una foto di quando siamo stati tutti insieme, che nonno si ricordava tutto e stava bene, e aveva addirittura un cappello strano in testa, di quelli da cowboy o quasi, e la abbiamo fatta incorniciare. Nonno si è svegliato dal riposino e, quando mamma lo ha accompagnato in salotto, abbiamo urlato “Buon Natale Nonno!” e lui ci guardava tutti male stando in silenzio. Si è messo a sedere sul divano e ha continuato a guardarci male. Forse non gli piacevano le stelle filanti rosse vicino alla portafinestra. O l’albero. Lo abbiamo messo all’angolo vuoto tra i due divani. Poi, quando abbiamo tagliato il panettone, nonno è sembrato un po’ più contento, e quando mio fratello gli ha dato il regalo e lui lo ha scartato e ha visto la foto, l’ha guardata bene, quindi ha guardato bene mio fratello Alberto e ha sorriso e gli ha dato due baci e ha detto “Buon Natale Alberto!”. Ha guardato bene me, mi ha dato due baci e ha detto “Buon Natale Francesco!”. E poi ha fatto gli auguri a mamma e papà. Si è ricordato chi siamo. Non capitava da un po’. Io credo che si è ricordato perché si è accorto che ci siamo impegnati e allora si è ricordato che ci vuole bene e si è dimenticato della malattia. Alla fine anche io voglio bene a nonno, perché non è facile impegnarsi quando si hanno certi problemi, e gli voglio bene lo stesso anche se non mi ha dato nessuna mancia.
Finisce così, con la battuta involontaria sulla mancia. Sopra sentivo il suono del flauto di mio figlio che si alternava ai pareri entusiastici di Mara. Ho fissato, senza davvero vederlo, il cestello di vimini dove teniamo gli attrezzi del camino, le sue forme accennate nel buio, e mi sono messo a pensare a quei venti secondi di mio nonno. Uno spiraglio di luce dal fondale di un pozzo scurissimo. Gli avevo voluto davvero bene in quel momento, perché aveva dato dignità ai nostri sforzi. Mi ricordo che i suoi occhi grigi avevano acquistato un’innocente tonalità azzurra. Gli acuti di Jingle Bells presero a rimbombare al piano superiore.
Spiragli, ho pensato.
Ho rimesso il tema nella scatola dei cimeli e ho fatto le scale per tornare di sopra. Sbirciando gli angoli smaccati degli scalini, mi sono ripromesso che l’indomani avrei chiamato il falegname per un preventivo.