UNA BUGIA A FIN DI BENE

Lo racconto perché è l’unico colpo di genio che ho avuto alle scuole medie. E non ha niente a che fare con i voti o con le materie. Avevo iniziato a preoccuparmi in un tardo pomeriggio davanti alla Playstation. Stavo finendo Crash Bandicoot 2 e ci stavo andando piano perché mamma mi aveva detto che con i nuovi acquisti avevo chiuso almeno per un mesetto. La cosa m’irritava, anche perché quella stessa settimana sarebbe uscito Crash Bandicoot 3. Ad ogni modo, il problema non erano i videogiochi ma quello che avevo saltato a piè pari, ovvero studiare. Avevo l’interrogazione di storia l’indomani e non sapevo nulla. Letteralmente. Il libro era rimasto rintanato in cartella e al massimo avrei potuto esporre la tecnica migliore con il joystick per superare il livello dell’orso gigante.

Ma dubito che la Bertazzi – la professoressa di storia- avesse nutrito quel genere di interesse.

La mattina successiva, una volta smontato dalla macchina di mamma, lasciai che mio fratello -un tipo venti centimetri più alto di me e di due anni più grande- raggiungesse il suo gruppetto di amici. Feci qualche passo a testa bassa, spiando l’ammasso di studenti davanti alla porta d’entrata. Poi sbirciai la macchina di mamma, che svanì alla seconda uscita della rotonda lì vicino. Lo decisi senza un reale piano. Tirai dritto, lasciai che le gambe improvvisassero per il sottoscritto.

Mi ritrovai seduto su una panca del parchetto della biblioteca. L’erbetta era coperta di brina e il legno della panchina non era di certo una stufa. Fu lì che riuscii a studiare una via d’uscita. Prima di tutto –pensai- dovevo partire da un principio di realtà. Non ero bravo con la falsificazione della firma, e la giustificazione doveva saltare fuori. E poi in ricreazione qualcuno sarebbe andato a chiedere a mio fratello se stessi male o che.

La storia ce l’avevo. Provai il tono di voce adatto: lagnoso ma trattenuto dalle lacrime di vergogna. “Mamma, non sono andato a scuola oggi perché…perché…”.

Mamma mi portò subito in salotto. Ero tornato a piedi prima di pranzo, un’ora prima del suono della campanella. In casa alleggiava l’odore del soffritto. “…perché uno in terza D mi tira pugni sulla pancia!”. “Uno…chi?!”. “Uno”. Mi grattavo via le lacrime recitate dagli occhi. “Ma quando? Gli hai fatto qualcosa?”. “Io non ho fatto niente! E lui che mi tira i pugni perché dice che non gli sono simpatico”. “E con le professoresse hai parlato?”. “Noooo” risposi. Singhiozzai un po’. “Va bene, va bene. Domani provo a parlarci io. Il…il ragazzo che ti ha preso di mira ha un nome?”. Annuii e la guardai come un cagnolino abbandonato sul ciglio di una strada. “Si chiama?”. “Lu…”. Respirai profondamente. “Luca Resti”.

Ora, sapevo esattamente cosa stavo scatenando? No, anche se in parte lo speravo. Luca Resti aveva solo tredici anni ma era già un idiota fatto e finito. Camminava come se avesse dei pesi infilati nelle scarpe e, quando ti guardava, aveva l’espressione di un pesce. Il reale punto della questione era che faceva parte del gruppo capeggiato da Diego Rigotti, l’acerrimo nemico di mio fratello. Si punzecchiavano ormai da un anno e si erano già presi a pugni due volte. Il motivo dell’antipatia era Chiara Agazzi, una ragazza castana dal viso dolce della terza A, che non riusciva a decidersi su chi dei due preferisse. Diego era il classico duro, quelli che impennano con lo scooter e fumano mezza sigaretta in ricreazione, mentre mio fratello era il più bravo e bello della compagnia dei bravi e belli. O almeno: si comportava come se lo fosse. Chiara aveva baciato entrambi, e poi aveva concesso a entrambi un abbraccio dietro il capanno degli attrezzi. La situazione era già tesa, e, conoscendo quella tendenza a mettersi in mostra sia di mio fratello che di Diego, avevo la vaga ma decisa intenzione di farla deflagrare. Quando? In ricreazione, due orette prima che mamma venisse a discutere della mia storia inventata.

Mi misi nella zona del gruppetto di Diego. Ovviamente stazionavano oltre la fine della lunga fila di biciclette, vicino ai loro scooter. Non ci volle molto. Mio fratello, appena saputo che ero stato la vittima innocente di Resti, radunò i suoi -Davide, Filippo e Tommaso, li conoscevo tutti- progettando di agire. Arrivarono come un gruppo di teppisti, con le sopracciglia tese e lo sguardo assassino. “Ehi coglione!” urlò mio fratello a Luca Resti. Un inizio che prometteva fulmini e tuoni. “Coglione a chi?” chiese Diego. “Che cazzo vuoi tu. Non sto parlando con te!”. Diego si mosse con uno scatto dallo scooter. “Oh!”. Si portò vicino a mio fratello. Non pensavo potesse andare così bene: avevo immaginato che almeno due parole sui motivi dello scontro le facessero, invece si ritrovarono a premersi le fronti l’uno addosso all’altro e poi a spintonarsi con foga. In quel momento, visto che i due gruppi erano concentrati sui litiganti, decisi di creare dal nulla un altro principio di realtà. Non si sa mai, pensai. Mi mossi sul perimetro di un cerchio immaginario e mi avvicinai a Resti. Sussurrai “Luca…Luca!”. Lui girò il viso e mi guardò con quei suoi occhi persi: presi la mira e gli sputai dritto per dritto sul destro. Il fremito di sorpresa, il successivo moto di ribrezzo, durarono sui quattro, cinque secondi. Divenne rosso alle guance. Disse qualcosa di indefinito e mi prese per il collo. Cominciai a urlare “Aiuto! Aiuto!” come se fossi una donzella nelle grinfie di un tiranno. Tommaso fu il primo ad intervenire e tirò un gran calcio sullo stinco di Luca. Luca scivolò sul terreno di sassolini e si alzò un polverone da mozzare il fiato. Diego allora tirò un pugno a mio fratello, e Filippo spintonò Diego, e mio fratello aggiunse tre o quattro ginocchiate all’altezza dei testicoli. Iniziò una rissa con i fiocchi; per essere sedata intervennero, oltre a qualche compagno di scuola, anche due professoresse.

Alla fine mamma venne convocata prima, per parlare con il preside di mio fratello: vennero chiamati i genitori di tutti i ragazzi coinvolti. Come avevo sperato, la mia storia inventata venne fuori per pochi minuti, il tempo necessario per dire che era vero che avevo ricevuto dei pugni da Resti, la replica di Resti a sostenere che non era vero e io che replicavo a mia volta che oggi mi aveva preso per il collo, Tommaso ne era testimone. Resti provò a dire che gli avevo sputato addosso ma anche gli adulti sapevano che erano un idiota già fatto e finito e che le sue parole non valevano granché. Ci si concentrò sul problema reale, la violenta inimicizia tra mio fratello e Diego Rigotti. Alla fine, da adulti si ragiona così. Non si ha troppo tempo per dissezionare gli eventi nelle tante verità che li compongono e ci si focalizza sul risolvere le problematiche della verità più evidente.

Tornando a casa in macchina, mamma fu una furia con mio fratello. Picchiava il volante come un pungiball e promise castighi e divieti. Entrando in casa, sussurrai a mio fratello che mi dispiaceva. E un po’ era vero, anche se in fondo a metterlo dei guai era stata la mia aggrovigliata macchinazione. Lui si chiuse in camera, e pranzai da solo con mamma. Mi disse che alla fine ero una vittima dei casini di mio fratello, sottolineò che ero due volte una vittima. Annuii, tenendo gli occhi mogi e le labbra strette. “Sai cosa facciamo domani” mi disse, “…Domani andiamo al negozio io, te e papà, e ti prendi un videogioco nuovo…Come la vedi?”.