
Laureato, poco più che ventenne, avevo appena trovato lavoro. La prima settimana l’avevo passata seduto al fianco dei colleghi che si susseguivano dietro lo sportello. Mi spiegavano come fare questo e quello. Io scrivevo mentalmente “fare questo così”, “fare quello colì”. Già alla terza settimana avevo ingranato, mi muovevo lesto con le mani, leggero con la mente, come se tutto mi fosse chiaro. Ovviamente non lo era, ma poco importava; l’importante era che lavorassi senza la pressione dell’errore attaccata alla schiena. Ho cominciato -dato che lo stato d’animo lo permetteva- a conoscere meglio i colleghi, a memorizzare nomi e interessi, battute e sensazioni: con chi potevo andare d’accordo e con chi meno.
Questo mio collega -lo chiamerò qui Rambo, capirete a breve il perché- ad un certo punto mi ha preso in simpatia -e di questo non capirete a breve il perché, perché non l’ho ancora capito neanch’io. Comunque sia, ha preso l’abitudine a mettersi nella postazione vicina alla mia, a fare battute a clienti e altri colleghi e cercare la mia approvazione con gli occhi, a darmi sonore pacche sulla schiena e ad invitarmi ripetutamente a bere qualcosa finito il turno. Si comportava come fossi il suo vecchio compagno di brigata, il suo complice e la sua spalla, e io non desideravo nessuno dei tre ruoli. Ho accettato comunque senza drammi la cosa, quando un’innocua pausa caffè tra colleghi ha cambiato le carte in tavola.
C’eravamo io e Rambo con il nostro bicchiere di plastica in mano, a mescolare lo zucchero con il bastoncino in plastica, e Martina e Simona, a ridere e sorseggiare un cappuccino già bevuto a metà. Parlavamo di basket, data la mia passione e il collegamento con il moroso di Martina, anch’esso sfegatato della palla a spicchi. Ho parlato della mia carriera giovanile, un umile sequela di risultati che certificavano l’incertezza del mio talento. “Guarda, una volta ho fatto ventinove punti. Il massimo in carriera!” ho detto sorridendo. “Beh non male” ha detto Rambo, poi ha continuato: “…Io ne ho fatti una sessantina in finale regionale.”. Simona ha fatto uno sguardo sorpreso, un “Davvero?”.
Infatti…davvero? Fin dall’inizio, da prima che si formasse il duo esplosivo Rambo-ElPuberamato, il mio compare non aveva mai accennato alla sua carriera cestistica, nonostante io avessi, in parte, già toccato l’argomento. Tralasciando il discorso dell’altezza -Rambo non è proprio longilineo, ma capita che molte giovani promesse siano basse- c’era un particolare in quello che aveva detto a lasciarmi fortemente diffidente: la sessantina. Come in altri settori, qualsiasi settore, dalla scuola agli sport ai dischi venduti in musica, dei record personali, sono convinto, uno si ricorda i numeri anche dopo la virgola, se ce ne fossero. Io, per esempio, ricordo i ventinove punti, non i quasi trenta o i venti abbondanti. La sessantina era vago, troppo vago per essere vero, secondo il mio sesto senso. Il rapporto, almeno da parte mia, ha cominciato a vacillare, e non che prima fosse così stabile.
Rambo, ho notato, si divertiva a tessere racconti sempre più assurdi sulla sua vita, o almeno che a me parevano assurdi. Esperienze che riunivano la fantasia di Spielberg e Lucas. In tutto ciò, certo, mi infastidiva il fatto che fosse sempre pronto a raccontare le sue avventure tratte da una storia vera davanti alle colleghe più carine, come per esempio Simona.
Mi ricordo -era un giorno primaverile da sole e starnuti- stavamo appollaiati fuori dal parcheggio che dava sulla filiale. Solo colleghi uomini, raccontavo di una mia avventura amorosa condita dalla presenza di un paio di migliori amiche, entrambe rassegnate ad aver perso la testa per il sottoscritto. La mia storia non riguardava azzardate notti a letto in tre, né tanto meno azzardate notti a letto in due con il nome della donna a cambiare di volta in volta. Era solo una questione amorosa. Non si sa come, a Rambo invece è parso che l’argomento fosse proprio il sesso in ogni sua esagerazione. Ha preso parola che ero arrivato a metà della risoluzione del mio triangolo, e ha elencato quando si è ritrovato a letto con due donne, con tre, in una gang bang, con la madre della fidanzata e un’amica della madre della fidanzata. “Davvero?” ha chiesto Renato, un tipo fino e alto dal profilo di un pianista. Io non sapevo cosa fare, volevo smascherare Rambo, non ce la facevo più, e lui continuava a darmi pacche sulla spalla come dovessi reggergli il gioco. Dentro mi sentivo implodere, senza la possibilità di esplodere.
Alla cena di fine anno è successo quel che è successo, e non crediate sia un evento eclatante. Semplicemente, come spesso voglio raccontare, sono solo aspetti che ho capito strada facendo, o che penso di aver capito. Eravamo seduti a mucchietti sul tavolo lungo della pizzeria, i piatti vuoti, i bicchieri quasi, quel momento dopo cena in cui si rompono i ranghi. L’argomento era, tra un sorriso malizioso e l’altro di Simona e Martina e Silvia, le dimensioni del pene. Tutto sommato un gioco facile per noi uomini, almeno finché non dobbiamo tirare giù le mutande. Le colleghe volevano sapere -scherzosamente o meno- le misure, e noi -vere o no- le abbiamo date. Io ero sereno, avevo sempre dichiarato i miei tot centimetri (tanto finché non mi tiro giù le mutande), e poi è toccato a Renato e Francesco, che erano restati su una bugia, se fosse stata tale, onesta. Accettabile.
Immagino avrete già capito come procede la storia: Rambo ha aspettato che tutti gli occhi fossero puntati su di lui, e, con il mento leggermente in fuori, ha sparato la misura del suo mitra. 34. Trenta-quattro.
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Più degli anni di Cristo, per non sbagliare. Io ho sorriso, e l’incontro del sorriso silente di Francesco mi ha rasserenato d’un tratto. Ho rivolto di nuovo lo sguardo sul viso sfrontato e sicuro di Rambo e ho capito, come vi dicevo, che lui non sarebbe mai cambiato, che l’avrebbe sparata sempre più alta. Non era neanche più una questione di vanto o di sfida, ma culturale. Educativa. Doveva imporre, almeno nel profluvio delle sue parole, la personale versione del mondo, dove lui era sempre un po’ più di te. Giusto quei 14 o 15 centimetri. Era inutile che esplodessi, che provassi anche solo a dubitare della sua versione, perché a lui della realtà non importava nulla. Aveva già la sua fantasia. Quindi era anche inutile che continuassi a perdere il fegato tra me e me: ad implodere.
Il problema rimaneva un altro, e su quello forse era il caso di lavorare: “Davvero?” chiese con gli occhi a forma di righello, Silvia.