
PIU’ PANNA
Sono seduto sulla panchina a cerchio di Piazza dei Signori. La fauna del sabato pomeriggio è mutevole come il tempo in Inghilterra: ci sono coppie di mezz’età che passeggiano serene, coppie di adolescenti in cerca di fama, un nero chino sul cellulare, una bambina con un cane a guinzaglio che incontra un altro cane a guinzaglio di un bambino accompagnato da un padre azzimato e una madre formato Charlotte Gainsbourg. Ci sono urla di una compagnia di adolescenti, e l’odore di una pizzetta con basilico in cottura. Il brusio di un gruppo di vecchie glorie e i riflessi degli occhiali da sole. Sto aspettando un’amica, un appuntamento innocente di due conoscenti di vecchia data. Dietro la mia schiena, sulla piazza incorniciata da Palazzo dei Trecento -i bordi dei tetti con le merlature- c’è una struttura di vetro, uno stanzone mobile disposto a mo’ di vetrina. Raccoglie l’attenzione di molti curiosi. All’interno, tra le tavolate utilizzate come il leggio dai musicisti, uomini e donne mescolano e miscelano, cuociono e dispongono crema e biscotti. C’è la coppa del mondo di Tiramisù, e Treviso, notoriamente capitale del raffinato e popolare dolce preparato al meglio sempre e comunque dalla propria madre, ne ospita i fatti. Il microfono del mattatore-presentatore all’interno è collegato a delle casse che rimbombano fino agli angoli della piazza. Ad un certo punto lo sento urlare: “Oh, non dirmelo…tu sei una di quelle bestiacce che mette la panna!”, e io mi chiedo perché a Treviso, a richiamare la curiosità della piazza e dei passanti, siano solo eventi di questo genere: culinari in superficie e dal cuore borghese-pettinato.
La mia amica arriva e ci spostiamo verso Piazza San Vito, ci sediamo sui tavoli che la riempiono; lei cerca il sole come un animale appena uscito dal letargo, io le lascio il tepore perché sto meglio in letargo. Parliamo un po’ di lei, e delle situazioni che vive al lavoro. Io passo al mio, e poi lei, e poi io, e poi, principalmente lei. Ad un certo punto mi dice che, per quanto riguarda le sue ambizioni, non sa se porterà avanti per molto il lavoro attuale. Le piace eh, aggiunge, ma preferirebbe una maggiore libertà decisionale, un maggior coinvolgimento della sua visione personale. Vorrebbe riconoscere la sua mano nel risultato finale. Annuisco, credo di capirla. Confessa, guardando un punto del bicchiere in cui vorrebbe specchiarsi per onestà intellettuale e accettazione, di non essere portata. Nella faccenda del metterci del suo: nel vedere quella mano trasformarsi in inaspettate circostanze ben incise. So che è stata sincera con se stessa e con me, ma non credo comunque alle sue parole.
La domenica finisco come da tradizione a pranzo dai miei. Per dolce…non c’è il tiramisù, ma dei bignè comprati in pasticceria da mio padre. Tra un assaggio e l’altro, cioccolato e fragole, crema e kiwi, parliamo degli eventi di Treviso. Mio padre dice, piacevolmente sconvolto: “Ma Treviso negli ultimi anni si è proprio data una svegliata. E’ piena di cose da vedere”. Io stringo gli occhi in un’attesa al sapore di bocciatura: davvero?, penso. Lui comincia la snocciolata: “C’è quello del fumetto…” “Il Comic Book Festival.” “Poi i cosi…i Suoni di Marca”. L’indice della mano destra tocca le punte dei polpastrelli della sinistra. “…Il Jazz Festival. Quello in dogana…” “L’Home!” “L’Home, esatto!”. L’Home ha alzato bandiera bianca ma, poco dopo, disteso sul letto della mia vecchia camera, tra me e me sono costretto a dargli ragione. Lasciati fuori dalla conta pure alcuni eventi non conosciuti per suo disinteresse, come il CartaCarbone o il Cineforum Labirinto, concludo con un principio di rammarico che, di iniziative interessanti e variegate, per borghesi-pettinati e per borghesi più disordinati, ne vengono organizzate. E allora qual è il problema? Qual è l’aspetto che rende Treviso così…poco…poco.
La sera apro un libro di racconti (Lorrie Moore, “Amo la vita”)e mi imbatto nella storia di Harry e della sua commedia. Viene subito presentato il protagonista, vive con la ragazza in un appartamento bugigattolo, arredato come un quadro di Pollock dipinto da un amatore. Il suo pensiero principale durante la giornata è concludere la commedia d’esordio, per presentarla a qualche impresario dei teatri di Broadway. Vivono proprio sulla Broadway, sopra un teatro, e alla domanda della ragazza sul perché non si possono trasferire in un quartiere più economico, lui risponde che non potrebbe mai allontanarsi da quel “Luogo”. Provo a incollare l’immagine di Treviso sopra queste prime pagine; immagino una città con tanti teatri al piano terra e nessun commediante al bugigattolo del primo piano. Intravedo le potenzialità delle persone -più che della città- spente dalla paura.
Dalla paura che arpiona le sue tenaglie sulle ambizioni, e le trasforma in un presagio di fallimento. Dalla paura che, appena messa la panna, qualcuno ci urli dietro bestiaccia.