CHIACCHIERE DI CITTA’ – Vol. 6

LUNGO IL MONDO CHE CI ATTRAVERSA

Esco per raggiungere e salutare qualche amicizia persa di vista con l’impegni delle età. E’ venerdì, la massa sfuma e si ricompatta come una promessa per il sabato; sono le undici, le lampade dei tavoli garantiscono un tocco di vita prima che si assopisca tutto nel giro di un paio d’ore. Ci troviamo fuori da Toni Da Spin, una trattoria con cucina tradizionale e porticina d’ingresso di legno scheggiato e vetro singolo; loro hanno mangiato -un ritrovo come si deve- io ho dovuto lavorare fino a poco prima. Ci abbracciamo, due baci a un’amica, due baci all’altra, una stretta vigorosa e l’occhio rispettosamente scrutatore al nuovo moroso di una delle due. Facciamo qualche battuta, saluto con meno enfasi altre due amiche che vedo un fine settimana sì e l’altro forse, ma probabilmente sì.  “Andiamo verso Piazza dei Signori, che lui non l’ha mai vista!” dice l’amica indicando con un sorriso il moroso.

Si sono conosciuti a Milano, lui della Brianza, lei fedele natia di Treviso che ha lasciato il nido alla ricerca delle sue ambizioni più durature. Negli anni è diventata un’insegnante di yoga. Nello specifico, di Vinyasa Yoga. La pratica, legata allo yoga più tradizionale, è nata e si è diffusa in India agli inizi del ‘900 grazie a Krishna Pattabi Jois, che a sua volta è stato allievo del maestro Tirumali  Krishnamachatya, anche lui iniziale principiante e addestratosi in un piccolo villaggio sperduto dell’Himalaya. Oggi la mia amica è una tra le più influenti insegnanti in Italia, con un certo seguito anche in Europa.

In Piazza dei Signori il movimento è sopito, qualche giovane gesticola e argomenta una sua tesi dalle sedie ben illuminate sotto il porticato di Palazzo dei Trecento. Restiamo in piedi a perderci nei nostri discorsi: come se, senza farci troppo caso, l’obiettivo fosse sempre a portata di mano. Passiamo dalle avventure alle disavventure alle avventure ancora; diciamo la nostra, ascoltiamo la nostra; diamo suggerimenti all’amica sulle osterie tipiche di Treviso da far vedere al moroso. “L’ho portato da Muscoli!” dice lei. “Beh, Muscoli è perfetto” dico io.

L’Osteria da Muscoli ha un alone di polvere che la conserva dalla tomba e dall’innovazione. Non è mai cambiata in nessun particolare da quando ho acquisito memoria. Dentro, i tavoli di legno spessi sembrano sistemati in un ordine casuale, le sedie forse reggono; sul bancone, agganciata e pronta al taglio, una porchetta a perenne metà; l’oste, un tipo con la barba e i capelli radi che vanno alla rinfusa come la clientela, ti guarda con l’occhio scontroso e il sorriso premuroso, atteggiamento di un vero oste veneto, atteggiamento che è pure di buona parte della clientela. D’estate, d’autunno e in primavera i tavoli esterni stanno a ridosso della penisola della Pescheria, dove i due archi schiumosi del Cagnan lasciano ai cigni dimorare come nobili nel quartiere più altolocato.

“E un altro posto dove si può bere lo spritz? Dove si può assaporare il Vero spritz, dico?” chiede il moroso. Ci penso, ci pensiamo, gli occhi in aria verso il campanile, verso l’orologio ad ispirarci come in un conto alla rovescia. “Beh, ci sarebbe la Gigia.” “Alla Gigia danno ancora lo spritz com’era in origine, no? Poco, in un flute…Lo spritzetto!”.

La Gigia non premierà per la comodità, nessuna sedia, nessun tavolo, al massimo una mensola d’appoggio per i tramezzini e le mozzarelle in carrozza e le pizzette alla salsiccia, i veri premi dell’esperienza. La polvere non c’è, ma l’aspetto delle pareti tende a commemorarla come un eroe caduto: sono esposti vecchi cellulari in bianco e nero con dei post-it su cui la dedica amorevole degli ex proprietari attira gli occhi e accompagna la masticazione ritmata, masticazione interrotta dal sorso accennato al flute dove uno spruzzo di bitter ricorda all’anziano l’elettricità della giovinezza.  

“Ma, per esempio” mi fa il moroso, “…Tu dov’è che hai bevuto lo spritz più buono?” “Il più buono?” “Il migliore di sempre!”. Ci penso e mi viene in mente, era una fine estate di qualche anno fa. Il locale aveva i grappoli d’affettato appesi sopra il bancone, e il proprietario César, un ragazzo con la barba lunga e i capelli rasati, portava un sorriso d’orgoglio per la presenza del nostro gruppo di amici. Il posto aveva uno stampo da osteria, ma i tavoli erano agghindati come in un film romantico, con candele e fogliame ornativo; le pareti bianche non avevano il classico alone giallo, e gli scaffali cerati proponevano vasetti di prodotti tipici della Toscana e del Veneto divisi per categoria. Avevamo accompagnato un abbondante piatto di affettati con degli spritz davvero saporiti, sulle papille gustative si esaltavano da soli e insieme il prosecco appena stappato e un liquore artigianale simile al Campari. Fuori, oltre la vetrina trasparente, i passanti camminavano lungo il marciapiede macchiato insieme ad una cartaccia danzante di giornale, e il sole illuminava gli scorci dei palazzi così irti e scrostati da garantire una pioggia di polvere.

“A Parigi. A Parigi ho bevuto lo spritz migliore di sempre” rispondo, con un dubbio preciso e oscillante tra il fatto e l’idea di cosa significhi migliore.