CONTRO LE PAURE

1.

Fu mia nonna la prima a dirmi che sarei potuto morire in tenera età. Che non c’era niente di certo: neanche la mia durabilità in termini vitali. Io al tempo – avevo sui quattro anni- mi sentivo un eroe difficile da scalfire e le sue parole mi piombarono d’un tratto nei non troppo idilliaci confini della realtà. Poteva andarmi male. “Magari una macchina ti prende sotto qui fuori e finisci al cimitero prima di me!” aveva detto ridendo. Lo aveva detto davvero. Da che io ricordi, e ricordo molto poco del periodo, fu la prima volta in cui venni costretto dall’ansia, il cervello fissato su una martellante immagine di fine e il crollo verticale, maestoso, di un sistema di valori, tra i quali la certezza che a morire prima era chi aveva i capelli bianchi…Era già ora di rivedere la mia vita?

Passò, immagino. Non ci pensai più o ci pensai fino a trovare una soluzione, ovvero non pensarci più. Ripresi a godermi i bei voti a scuola, qualche scampagnata con gli amici, i film di mia madre. Capitò una sera in cui a scegliere il film fu mio padre. In sua compagnia ero abituato a vedere le partite di calcio, quindi ero curioso di quel nuovo accostamento tra mano -una mano più spessa, ruvida e forte-  e telecomando. Non finì con Bruce Willis o Mel Gibson, mio padre non è mai stato un appassionato, ma con Fracchia contro Dracula, il protagonista interpretato da Paolo Villaggio, le intenzioni -avrete intuito- tendenti al tragicomico. Non riuscii a vedere tutto il film, mi impressionò una scena legata ad una qualche improvvisa apparizione del personaggio di Dracula nella camera dell’ingegner Fracchia, e da quel momento, non conosco il perché, cominciai a nutrire una paura folle per i ladri.

Le sere successive al film, nascondendomi sotto le lenzuola fino al capo, vissi nel terrore di avere un ladro sul bordo del letto pronto a pugnalarmi. Ora: è evidente fossi confuso. I ladri non sono proprio killer, ma mi ricordo con estrema precisione l’idea di un ladro, grossomodo vestito alla Diabolik, intenzionato a mettere fine ai miei giorni. Andando in bagno, sempre una di quelle sere, una folata di vento fece svolazzare la tenda e sbattere il battente proprio nel mentre in cui accesi la luce, e non potei fare altro che urlare dallo spavento, convinto di essere a tu per tu con il fantomatico ladro-killer. Quando realizzai che era solo stato il vento, quando mio padre arrivò preoccupato con le giunture delle ginocchia cigolanti a chiedermi cos’era successo, capii non solo di aver paura -quello lo sapevo già- ma di vergognarmene anche, perché era insensata, eccessiva e, a conti fatti, totalmente ingiustificata.

Superai anche le trappole dell’immaginario ladro killer; prosegui vivo e vegeto la mia carriera di bambino, evitando per un lungo periodo l’accostamento film-papà (probabilmente uno dei motivi per cui non sono mai riuscito ad apprezzare fino in fondo Fantozzi: le remore su ciò che faceva ridere mio padre).

Sempre lui, attraverso le mie insistenti domande in fatto di topi e del perché andassero evitati, instillò una forte fobia per la malattia nota come leptospirosi: le urine dei suddetti animali a contatto con una ferita comportavano dolori indicibili e morte certa. Nessuno però mi aveva mai specificato che la cosa riguardava i corsi d’acqua, i rischi legati all’immersione, quindi, quando finivo per sbucciarmi le ginocchia sul cemento del cortile di casa -una casa particolare, che era anche sede di un’azeinda e che aveva dei capannoni e una sudicia canaletta appena oltre la recinzione- temevo che su quella stessa porzione di cemento si fossero radunati una mandria di topi a pisciare come fosse stato il bagno di un autogrill. Anche in questo caso, conscio di una vaga e indomabile traccia di irrazionalità, non rivelavo la paura a nessuno per l’ovvia vergogna che avrebbe scaturito.

2.

Nella maggior parte dei casi utilizzavamo le ore di disegno a scuola per colorare. E io odiavo colorare. Non capivo cosa ci fosse di bello nel riempire i confini di quelle magnifiche forme, come fiori e animali, o ancora vedute paesaggistiche e velieri, quando quei confini si sarebbero potuti tracciare..Magari non venivano così bene come nei libri di testo, ma che importanza aveva? Sarebbero state forme create da me.

Era una giornata grigia, in ogni caso non saremmo andati a giocare nel cortile esterno per colpa della fanghiglia, e la pioggia aveva dichiarato guerra senza tregua ai finestroni della classe. La maestra ci dette un compito nuovo, forse perché avevamo a disposizione anche il tempo della ricreazione. Disegnare dei personaggi, farci una storia. La matita cominciò a stare nella mia mano come un bambino sta in coda per la prossima giostra…Finalmente! Ma dovevo pensare a che storia inventarmi. Slegato dal bagno di realtà in cui ero stato catapultato senza richieste particolari -non avevo mai preteso da nessuno troppa sincerità- presi le vesti del protagonista e tracciai le fisionomia del nemico, un ladro killer sulla cui lama del pugnale, dalle sembianze di una scimitarra, era cosparsa la velenosa urina di topo. La sua missione era rapire mia nonna; la mia, ovviamente, salvarla.

La maestra ebbe qualcosa da ridire sull’urina e sul fatto che non avessi colorato le dieci pagine su cui si dipanava la storia. Ma a me non importava: preso da una gioia come mitigata, una somministrazione costante e bilanciata, finalmente avevo reso ridicole le mie paure, le avevo vinte almeno sulla carta, ed ero tornato l’eroe difficile da scalfire che volevo essere. Inesistente nella realtà ma dalle mille possibili versioni nel campo sterminato della fantasia.