
La conoscevo fin da bambino. Si chiamava Teresa ed era la moglie di Massimo, entrambi proprietari del locale all’angolo della via di casa. Era una pizzeria ma anche un semplice bar, aperto dalla mattina alla sera. Di sottobanco vendevano le sigarette. Mia madre ogni tanto mi mandava a prenderle un pacchetto. Teresa mi guardava da dietro il bancone seria, con un cipiglio da tenente. Dopo avermi dato il pacchetto, diceva: “Dì a tua mamma che deve venire a prendere lei, le sigarette!”. Io annuivo con in faccia la colpa di un condannato a morte, e a quel punto Teresa rilassava la tensione degli occhi; con un tono di voce dolce e amichevole, mi chiedeva se volessi un gelato. Era una donna giusta, e buona.
Del suo sogno me ne parlò Massimo, una sera di quando avevo più o meno dieci anni. Sulle pareti della pizzeria c’erano delle foto incorniciate di Parigi. Su alcune erano immortalati i posti più famosi, mentre su altre sembravano impressi momenti ordinari di persone comuni e di luoghi ancor più comuni. Avevo da poco ordinato le pizze da portare a casa e mi ero perso ad osservarle. Massimo era un uomo dal viso tondo e paziente, sempre con gli occhiali e i radi capelli mori ben pettinati in un’onda da destra verso sinistra. Teneva le braccia tese poggiate sul banco. “Ti piacciono?” mi chiese. “Sì…cioè, non lo so”. Ero un ragazzino, ero incerto sui miei gusti. “Sono di Teresa”. “Nel senso che è una fotografa?”. Massimo strabuzzò gli occhi e si massaggiò la guancia destra, come se si fosse reso conto di quanto le sue parole potessero essere fraintese. “Oddio, no…no. Sono di Teresa nel senso che le ha comprate”. Feci la domanda più naturale. “Le piace Parigi?”. “La adora!” sentenziò Massimo, “…anche se non l’ha mai vista”. “Neanche io ci sono mai andato” risposi: cercavo di essere sempre condiscendente con gli adulti, anche quando non ne ve era alcuna necessità. “Prima o poi ce la porterò” disse Massimo. Annuii. All’epoca viaggiare era meno immediato di oggi, e c’erano altri fatterelli piuttosto ovvii che avrei capito qualche anno più tardi.
Sarò stato in terza media. Utilizzando la scusa delle sigarette per mia madre, avevo cominciato ad intascarmi direttamente i pacchetti. Teresa lo aveva capito e aveva smesso sia di rimproverarmi che di offrirmi il gelato. Quella volta avevo ordinato anche un cappuccino e mi ero seduto in un piccolo tavolino oltre la fine del bancone. Dopo avermi servito, Teresa era tornata a parlare con Lucia, una cliente fissa e una personalità conosciuta in paese. Le loro voci facevano da colonna sonora alla sala per il resto vuota e ordinata, su cui aleggiava il profumo di detersivo alla lavanda. “Ti giuro che non ho mai visto così tanta…vita. Un ammasso! Anche troppa per i miei gusti”. “Ma piove come dicono?”. Lucia, il cui viso sembrava un ritratto leggermente sbiadito di una modella, inclinò la testa a destra e poi sinistra. “Diciamo che capita più di quanto speri non capiti”. “Ma questo non fa…” – Teresa gesticolò con le braccia, gli occhi brillarono – “…atmosfera?”. “Intendi il fascino del grigiore londinese?”. “Sì!”. Teresa sembrava un bambino in un negozio di giocattoli. “Forse…ma allora preferisco il fascino del nostro sole”. Teresa sbottò appena, le parole di Lucia l’avevano leggermente scaldata. “Come sta Giulio? E…Oddio, non mi viene il nome della più piccola”. “Camilla”. Cambiarono argomento. Del mio cappuccino era ormai rimasto un bordo morente di schiuma. Salutai e, appena superato un grosso cespuglio, mi infilai su una via sterrata tra due campi, dove aprii il pacchetto di sigarette.
Avevo qualcosa come sedici anni quando Teresa mi parlò delle foto e di Parigi. Mi ero appena trovato con Roberto e Checco, una bevuta contornata da una pizza condivisa, sigarette a volontà e una dissertazione approfondita sul sesso orale. Seduti sul plateatico esterno, in una di quelle serate primaverili benedette e poi liberate dalla pioggia, condividevamo lo spazio con gli altri compaesani più o meno conosciuti. Andai dentro a pagare: facevamo a turno e quella volta l’onere toccava al sottoscritto. Teresa era seduta in un piccolo tavolino di legno destinato alla clientela. La mano poggiata sulla fronte, l’altra legata a quella della figlia Camilla, che la teneva sopra la testa mentre cercava di fare una piroetta. Figlia permettendo, si stava riposando. Si era formata una piccola coda davanti alla cassa, quindi optai per sedermi vicino a Teresa. “Allora, come sta la mamma?”. “Bene. Sta tentando di smettere di fumare”. “Ahi, ahi. Una bella prova”. Annuii. “In compenso tu ci dai dentro, mi pare”. La bambina si era messa a vagare per il corridoio centrale, sprizzando pernacchie con la lingua. “Se non lo faccio adesso, Teresa”. Lei sorrise, la voce si fece complice. “Non ti dico che hai ragione…perché ti fa male”. “Ma un po’ lo pensi”. Puntai l’indice. Fu in quel momento che lei ruotò i suoi occhi – due pupille verdi sopra delle accennate e comprensibili borse – e finì per scorgere una delle sue foto, mi pare fosse immortalata una bambina in bicicletta in qualche via stretta e ripida. “Sai che ho sempre la fissa per Parigi? E sai che non ci sono mai andata? Ecco, a volte credo di aver…perso il treno. Quindi, se mi dici che è meglio fare le cose quando si può…non sarò io a dirti che hai torto. Però promettimi che smetti”. “Un giorno ci proverò”. Non avevo molto voglia di ascoltare la paternale. “Una promessa poco promettente!”. Mi alzai, Camilla era tornata di corsa, con le sue scarpette lucide e i suoi codini biondi e laschi, tra le braccia della madre. “Faccio quello che posso” risposi, pescando il portafoglio da una tasca laterale dei jeans e volgendomi verso Massimo.
Suo marito glielo aveva promesso di portarla a Parigi, più di una volta. Me lo disse Enrico, il figlio. Si era messo a lavorare al forno per sollevare da qualche fatica il padre, che incominciava ad avere una certa età. Io avevo finito da poco l’università ed ero appena tornato proprio da Parigi, dove abitava la mia ragazza dell’epoca. “Oh, non dirlo a mia madre, ti prego!” cominciò Enrico, mentre, con la pala in mano, scivolava sotto una pizza lungo il banco infarinato. In testa aveva una bandana dai mille colori. Era un sabato sera e l’aria era appesantita da tutti quei pensieri che venivano scambiati da un tavolo all’altro. “Non è ancora andata?” domandai con il tono quasi scandalizzato. Enrico rise, si massaggiò la guancia destra – un gesto ereditato dal padre – imbiancandosi qualche pelo di barba. “E’ sempre stata una litania in famiglia. Mia mamma si lamenta che non va mai in giro. Che le tocca ascoltare dei mille viaggi di Lucia…e lei mai niente! Papà allora le promette che la porta almeno a Parigi e lei che non ci crede più”. Da come la stava raccontando, con un gran sorriso sornione, si capiva quanto fossero, seppur dettate da reali bisogni, delle scaramucce innocenti. “…A volte mamma dà la colpa a noi! A me e mia sorella. Dice: Se non vi avessi fatto, chissà quanto avremmo viaggiato! Altro che bar, ci abiteremmo a Parigi!”. Gli assicurai che, a vedere i mille ostacoli della mia ragazza, abitarci era molto meno poetico che immaginare di farlo.
Nonostante il mio trasferimento in un’altra città, appena tornavo per un saluto in famiglia, passavo anche dalla pizzeria di Massimo e Teresa. Esattamente come i miei, invecchiavano anche loro di anno e in anno, ma le pareti del locale, con sempre le stesse foto di una Parigi tra la fama e l’anonimato, e il bancone, che partiva dal frigo dei gelati e arrivava al forno della pizzeria, e i tavolini messi in colonna – in cui di solito sedeva Lucia, elargendo i dettagli delle sue avventure – garantivano una tregua alle vicissitudini del tempo.
Massimo venne a mancare per un malore improvviso. Non fui presente al funerale e passai al locale tre mesi dopo. Camilla era ormai una giovane donna, pronta all’esame della maturità. Enrico era diventato una presenza fissa e Teresa…beh, era sempre lì. A sistemare, riordinare, poggiare i caffè sulle tazzine e dare i gelati ai ragazzini. Aveva smesso di colorarsi i capelli, ora erano di un bel grigio chiaro scintillante, e le rughe avevano preso una certa consistenza soprattutto tra la bocca e il mento. Quando mi vide, in un tripudio di entusiasmo, mi chiese se stessi ancora con la ragazza di Parigi e le dissi che ormai era una storia superata. Io le domandai, tra lo scherzo o la voglia di infonderle coraggio, quando invece lei sarebbe partita alla volta della capitale francese. Si mise a ridere, una risata che mi aveva ricordato quelle recenti di mia madre – qualcosa che aveva a che fare con un ultimo e decisivo cambio di prospettiva. Mi disse che lei a Parigi non ci avrebbe mai messo piede. “Se è per la storia del treno passato…”, le dissi, memore di quelle parole, “…forse è il caso di essere più ottimisti, no?”. Mi guardò, stringendo le labbra. Fece un no tremante con la testa. Poi diede un gran respiro e lasciò andare un aaaaa a cui aggiunse: “…Quando fai lo stesso sogno per tanto tempo, finisci per studiarne troppi aspetti. E finisce che alcuni aspetti diventano più importanti del sogno”. Potevo essere più sciocco? Massimo le aveva promesso di portarla a Parigi, e la sua compagnia era un nodo cruciale. “Fumi ancora?” domandò Teresa. Feci no con la testa. “Oooh…Questa è una buona notizia. Allora il caffè te lo offro!”. Tirai un sospiro di sollievo. Nonostante la mia superficialità e nonostante la morte del marito, Teresa era ancora una donna giusta, e buona.
Morì non molto tempo dopo. Si disse che, nella sfortuna, era stata fortunata come Massimo, perché non aveva sofferto. Mi ero ritrasferito in paese, con quella che sarebbe diventata la mia futura moglie, quindi riuscii ad andare al funerale. Ritrovai Roberto e Checco, non li vedevo da almeno tre anni. Lucia era disperata, non fece altro che ripetere in lacrime quanto fosse legata a Teresa. “E’ la mia unica amica…L’unica che mi ha sempre ascoltato, l’unica che volevo al mio funerale!”.
Ripensai a quelle parole qualche settimana dopo, quando, ad un tavolino del locale, parlavamo con Enrico della sua intenzione di rinnovare l’ambiente. “Non so se tenere o meno le foto di Parigi” confessò. Le osservai, quelle foto che vedevo appese dalla mia infanzia. C’era il desiderio infranto di Teresa – di andarsene e vedere il mondo – ma quel desiderio aveva finito per fare parte del rifugio di tanti di noi, un rifugio che la stessa Teresa, con Massimo e la sua famiglia, avevano costruito. In quelle cornici, più che una Parigi lontana e immaginata, più che una mancanza, pensai ci fosse una parte del tutto che Teresa era riuscita a fare. “Secondo me, stanno bene lì dove sono”, dissi in un consiglio spassionato.