SUI TORNEI ESTIVI 3VS3

Sapevamo che avremmo probabilmente perso tutte le partite del torneo. D’altronde la squadra era stata costruita non solo per partecipare, ma proprio per perdere. Sotto canestro, calamita dei rimbalzi, ci sarebbe stato Ciccio, non perché alto, o perché largo di spalle, o perché saltatore di professione, ma perché ciccione. Una mongolfiera dal bacino al collo, e sopra il collo il sorriso bonario di un uomo che aveva voglia di riappacificarsi con il mondo ancora prima di aver dichiarato guerra: un atteggiamento invidiabile in diversi contesti, di certo non in quello della lotta ad accalappiare il pallone volante tra i gomiti aguzzi degli avversari.

Nel ruolo di tiratore da tre, Andre. Non era mai stato un cecchino, e neanche sapeva bene come si tirasse, solo che era troppo basso e mingherlino per il resto dei ruoli. Aveva detto, prima del torneo, che sarebbe venuto solo per fare un favore a me a mio fratello. Effettivamente senza di lui non si sarebbe formata la squadra, che prevedeva un minimo di quattro giocatori: tre titolari più la riserva volante. Ammirevole il suo moto d’amicizia, anche se avrei preferito ammirargli la tecnica di tiro.

Mio fratello a basket ci aveva anche giocato due anni, ma più del basket gli erano sempre piaciuti i numeri, come avrebbe detto mamma, da America: i passaggi dietro la schiena e le stravaganti mosse a mille cambi di direzione sotto canestro. Era anche bello vedergli fare qualche acrobazia durante il riscaldamento ma poi quando era ora di giocare sembrava voler collezionare una cazzata dietro l’altra. Sembrava ambire al premio di palle gettate al vento. E se ci fosse stato, quel premio, sono sicuro che l’ambizione avrebbe placato la sua fame.

Infine c’ero io. Ero quello che se la cavava meglio, il più bravo, ma la cosa mi interessava poco. Non è che con il basket c’avessi fatto granché nella vita. Un premio, avevo vinto. Alle giovanili. Miglior Difensore della fase finale provinciale. Robe di cui neanche esistono gli archivi. Ho smesso che avevo sui vent’anni, dopo svariati piccoli infortuni a giocare titolare in una delle ultime serie del campionato. Anche lì, robe che non rimangono nella memoria, tranne per i legamenti e i tendini ammaccati, quelli il corpo se li ricorda finché campo. Comunque sia, non era tanto che volessi vincere o che, solo che il miracolo che avremmo potuto compiere era di non perderle tutte; un miracolo quasi a portata di mano, no?

Arrivammo al campo in ritardo di un quarto d’ora. Tanto lo sapevamo che l’organizzazione era più in ritardo di noi. Infatti non si era ancora fatto niente. Sotto il sole di giugno, si sentivano gli sdeng dei ferri, i palloni che rimbalzavano sul cemento grigio, quello da manto stradale, ruvido, affilato, pericoloso, e le chiacchiere a voce di alta di qualche altro giocatore arrivato puntuale. Ci infilammo oltre il cancello a rete, salutammo con quei gesti da sport -avete presente, i cinque e i pugnetti e poi di nuovo il cinque, pugnetto su, giù, sul petto, quelle cose lì. Poi Andre, che già aveva caldo, già stava sudando, già si era chiesto com’era possibile giocare con quella calura (di inverno si chiedeva come fosse possibile giocare con tanta freddura, d’autunno pioveva, in primavera aveva l’allergia, o erano più d’una?), puntò a delle sedie all’ombra di un albero dalla chioma riccia: avevamo la nostra base. Ciccio si accese una sigaretta e si mise comodo come se avesse dovuto guardarsi un film. Mio fratello, scarpe da basket allacciate, prese palla (ne avevamo portate un paio) e andò a fare degli strani palleggi in mezzo al campo. Io cominciai a fare su e giù lungo la linea verticale, per scaldare e allentare la tensione ai muscoli. Tra i mille palloni che rimbalzavano, i giocatori che erano sempre più ammassati in campo e fuori, gli organizzatori con un cipiglio da Non sono forte a giocare ma almeno ho organizzato, studiavano su di un piccolo banco come tracciare lo schema del torneo, i vari gironi e poi i play-off. L’indelebile blu scorreva insicuro pronto a fermarsi, a chiedere “…E ora?”. La palla che mi colpì in piena faccia poteva provenire da tante mani, ma ero contento fosse partita da mio fratello. Mi immerse in un’atmosfera conosciuta, famigliare. “Scusa, scusa!”. Gliela ripassai. Aveva cominciato a perdere palloni prima della partita.

Mezz’ora e il tabellone era pronto. Ci sarebbe stato il pescaggio delle squadre, e poi si sarebbe partiti con le prime due partite: i 3v3 si giocano contemporaneamente nelle due metà del campo. Noi ci chiamavamo I Parabolici (c’era un motivo, una cazzata che riguardava il segnale mancante la sera di una finale di basket in tv) e ci saremmo scontrati in girone con I Demoni di Sambughè, gli NBA-Nati Bassi e Alcolizzati, e i Tremors. Annuii, Andre mi chiese se avevamo qualche possibilità di passare il girone. “Mi sa di no…”. Quello era chiaro anche prima: eravamo i più scarsi, pure dei Nati Bassi e Alcolizzati. “…Però oh, noi ci proviamo.” “Per forza!” disse mio fratello. Ciccio cominciò anche lui a lamentarsi del caldo. Eravamo carichi. Feci due saltelli e sentii il ginocchio tirare. Eravamo pronti.

Provammo a guardare le prime due partite, ma ci facemmo distrarre da un paio di profili Instagram di ragazze della zona. Poi ci furono altre due partite, e noi avevamo ancora la testa immersa su Instagram, parole sussurrate a descrivere le immagini dei sorrisi e dei fisici che ci apparivano davanti.  All’annuncio di uno degli organizzatori, quello più professionale, con la maglia di O’Neal ai Magic e i calzettoni tirati su alla Jason Terry, “Tremors contro Parabolici al campo 1!” ci alzammo di scatto, tranne Ciccio che sbuffò.

Feci due palleggi, il sole bruciava sotto i miei piedi. I Tremors ci guardavano torvi, gli occhi alla Clint Eastwood, e noi guardavamo loro scuri, gli occhi alla Batman. Tirai, tirò Ciccio, tirò Andrea, tirò uno dei Tremors, tiravamo, tiravamo, tiravamo, tiravamo: era il pre-partita. Sentimmo il fischio, l’arbitro, uno degli organizzatori più anziani, la polo infilata dentro i jeans, ci spiegò velocemente le regole. Ci battemmo il cinque, mio fratello disse “Andiamo cazzo, andiamo!”. Io andai per saltare alla palla due.

La palla fece un paio di giri su se stessa in aria, saltai con la sensazione che la forza di gravità non esistesse; leggiadro, volteggiavo. Ma volteggiò più rapidamente l’avversario. Palla ai Tremors, la ricevette il più basso, un tipo con i polpacci che sembravano due incudini e i peli che uscivano pure dalla schiena. La passò alla guardia, un tipo dalla forma quadrata, che a sua volta la passò al lungo, il quale, da di fronte a me, era già sotto canestro, già aveva spostato Ciccio con un movimento di schiena, già aveva appoggiato al tabellone i primi due punti.

La partita seguì con i classici movimenti che avevamo imparato negli anni: Andrea cominciò a chiedere “Scusa, scusa, scusa!” ad ogni tiro scoccato fuori misura; lo diceva così velocemente che sembrava volesse sostituire lo sccccc della retina. Ciccio cominciò a chiamare fallo anche quando segnavamo. Mio fratello ad ogni passaggio lanciato verso il campanile -la chiesa era poco dopo oltre la cancellata- faceva, a chi era indirizzato il passaggio, il gesto di tagliare. Mano dritta, due colpi, occhi che si allargavano in un moto di seccatura. “…Dai ah!”. Io, nonostante avessi segnato i sei punti totali della squadra, per i restanti dodici tiri sbagliati facevo seguire al gesto tecnico del rilascio, quello sempre tecnico ma recitativo del ginocchio che brucia sul retro. Inspiravo rumorosamente, un fffffffffff che aveva un che di rrrrrrrrrr,  al che seguivano le domande dei compagni: “Tutto apposto? Ti fa male?”, e io con la viso corrucciato dell’eroe sopravvissuto al battaglione nemico, dicevo “No, no, è tutto a posto.”.

La prima partita finì quindi 6 a 21.

La seconda, contro i Nati Bassi e Alcolizzati (erano tutti e quattro bassi e con una pancia che pareva il Gran Sasso, ma pareva anche avessero le ali ai piedi, l’agilità di un ghepardo sul corpo di un ippopotamo: sarà stata la birra?), finì 10 a 21.

Alla terza, contro i Demoni di Sambughè, avevo deciso di metterci tutto me stesso. Il sole aveva quasi sciolto Ciccio in uno stato di fissità assoluta sotto canestro, il che era un bene perché non chiamava più palla; Andrea non aveva più forze sulle braccia, la passava e basta, e questo significava semplicemente qualche tiro sbagliato in meno sulle statistiche; ancora una volta un bene. La ciliegina sulla torta era il drastico calo della voglia di creatività in mio fratello, che, lo conoscevo bene, funzionava come la barra di livello delle mosse speciali dei picchiaduro: una volta sfogatosi, la barra si svuotava e ci voleva il suo tempo per riempirla nuovamente. Insomma, il miracolo poteva accadere: la squadra, grazie all’evidente sfinimento, riusciva a mettere da parte i suoi peggiori difetti e a giocare in un intricato labirinto di passaggi, con me e mio fratello a fare da pendoli nei vari punti topici dell’area e del suo perimetro. Ora non avevo più scuse, dovevo segnare di più. Superare il venti per cento al tiro: un miracolo nel miracolo.

La partita si fece subito infuocata, anche loro erano messi male; avevano un paio di componenti con il viso segnato dal sudore e dal tipico sconvolgimento dell’attività fisica, un terzo bravo ma fermo, un palo dalle qualità notevoli, e il play che, come si suol dire, predicava nel deserto. Io e mio fratello ci alternavamo a marcare il play, Andrea e Ciccio si davano man forte a vicenda quando era ora di darci dentro con la volontà, l’unica qualità che non era ancora sudata via dalla fronte. Sul 12 a 12 era chiaro che la partita non era una partita, ma uno scontro a fuoco, diciamo con i proiettili che raramente beccavano il bersaglio. Ci furono sdeng memorabili, e tanti air ball dal silenzio leggendario. Sul 20 a 18 per i Demoni di Sambughè, ricevetti palla da mio fratello, aveva fatto un gran pick & roll con Ciccio e l’aveva scaricata a me, mi ero mosso lungo la linea da tre, per accentrarmi verso la lunetta. Il mio avversario, il play, mi aveva seguito e aveva recuperato il mezzo secondo di ritardo. Quando mi alzai in aria dovetti, con un movimento poco elegante, gettarmi leggermente indietro, e in quel momento sentii il ginocchio come se fosse a qualche metro da me, poi un dolore come sega sull’osso. Rilasciai il tiro che fece la sua parabola, lenta e arcuata. Il rumori che ne seguirono furono due: il mio “aaaaaaaaaahhhhh” che non era una scusa, e lo SDENG che risuonò come da un microfono. Mio fratello e Ciccio, e Andrea dalla panchina, mi si fecero attorno, io disteso con le mani a tenermi il ginocchio, il viso che sapeva di sudore e dolore. “Tutto bene?” “Oh cazzo, no bene un cazzo!”. Arrivarono anche gli organizzatori. Ci fu un interesse generale da cronaca rosa o nera.

Si chiamò l’ambulanza, dovevo essere trasportato in ospedale, probabile qualche coinvolgimento del menisco aveva sospettato l’infermiere. Mentre venivo caricato nel mezzo d’emergenza, mio fratello mi assicurò, puntandomi il dito indice, che mi avrebbero onorato in campo. Annuii, “Vincete la partita!” sussurrai come un vecchio Yoda nei suoi ultimi secondi di vita ultracentenaria.

Ciccio, Andre e mio fratello arrivarono in Pronto Soccorso che dovevo attendere il risultato delle lastre. Si sedettero sulle sedie scheggiate e lucide di fianco alla mia. “Allora?” “Mi hanno detto di aspettare una mezz’ora per i risultati.”. Gli altri presunti malati ci fissavano: effettivamente eravamo tutti belli fradici e poco presentabili. “Com’è andata la partita?” chiesi. Mio fratello espirò, mugolò. Fece no con la testa, “…Persa.”. “Ci hanno infilato due triple e…niente” disse triste Andrea. Ciccio si faceva aria con la maglia che sembrava la Sacra Sindone. Buttai la testa indietro, oltre lo schienale basso. Il soffitto era bianco, intonso, pieno di risultati ancora da scrivere. “Però ci possiamo provare il prossimo anno.” disse mio fratello. Stavo aspettando il responso sul mio ginocchio, chissà se si era rotto qualcosa, chissà cosa mi sarebbe toccato fare per sistemarlo. Ma la cosa, lo sentivo, era secondaria; era secondaria come il fatto di essere usciti sconfitti per l’ennesima volta, di aver giocato male, era secondaria perfino al basket.

“Certo che ci proviamo il prossimo anno.” dissi. Mio fratello sorrise, così Ciccio e Andre.

Eravamo gente a cui piaceva credere dei miracoli.

Tutto qui.