
1.
Era, come molte altre, una giornata che volgeva al termine; estate piena, il sole piantato sopra il mare del Lido di Venezia, io, Miriam e Letizia fuori dagli uffici a ridere e scherzare su qualcosa che era successo a lavoro, forse una gaffe mia, o di un dirigente. Letizia fumava una sigaretta dandole importanza ogni volta che le labbra abbracciavano il filtro; si vedeva un certo affetto nei suoi occhi scuri, mentre immagazzinava il fumo nei polmoni. Miriam, tra una battuta e l’altra, sentita o pronunciata con la speranza di un comico sfortunato a tradirla nel tono, incrociò le braccia all’altezza del busto, in una posizione come d’attesa. Quando le risate andarono spegnendosi domandò, sguardo serio e affilato: “Stasera facciamo qualcosa, vero?”. Letizia, frugando nella borsa per pescare un’altra sigaretta, la seconda, per potersela godere come da fumare distrattamente, sussurrò un “Perché no.” Io inspirai, quasi a voler sgranchire i muscoli dello sterno, poi allargai la schiena, alzai le braccia, a stiracchiare per bene le articolazioni rattrappite dalle ore in ufficio. Un colpo d’aria arrivò dal mare, superò la spiaggia e la strada, e inondò il piazzale bianco dov’eravamo, s’infranse sulla struttura di Palazzo del Cinema, bassa come un granchio e spigolosa come uno scoglio. In risposta sbuffai salsedine mista a caffè lisci con una bustina di zucchero di canna. “Stasera c’è il cinema all’aperto in piazza, poco più avanti” dissi, incerto sull’interesse che la proposta avrebbe suscitato nelle mie colleghe.
Ero un grande appassionato di cinema; lo ero da quando avevo otto o nove anni, da quando mamma mi portò a vedere Titanic in un piccolo cinema nella provincia dove avevo trascorso l’infanzia e l’adolescenza. Da quel momento, da quando a bocca aperta e occhi spalancati rimasi ad osservare la riproduzione in computer grafica del transatlantico sprofondare nelle acque dell’oceano, trascorsi i venerdì e i sabati sera al cinema o a noleggiare film al Blockbuster. Davanti mi scorrevano le immagini, scene di omicidi, di amori e di misteri, di sguardi e di incendi, di vita che scorreva a sua volta, senza, a dir la verità, bisogno di spettatori. Mi sentivo un privilegiato, un curiosone pervertito appagato al prezzo di pochi euro, pop al burro e Coca Cola. Decisi, finite le superiori, di dedicarci la carriera, iscrivendomi ad una scuola di regia. Mi cimentai in un paio di cortometraggi che ricevettero anche buone recensioni e il terzo posto ad un concorso nazionale, poi due lungometraggi, qualche esame su tecniche e storia del cinema, infine il diploma e un bel “In bocca al lupo!”.
Se da un lato continuavo a scrivere copioni che non vedevano la luce, a girare film che non venivano considerati dai produttori, dall’altro decisi, vista le difficoltà oggettive del campare con l’attività registica, di candidarmi come impiegato in qualche istituzione di spicco del ramo, come Cinecittà, la Rai, o la Mostra del Cinema di Venezia. Mi sarebbe piaciuto diventare, o forse essere trattato, come un massimo esperto del settore, uno di quei capoccia che ne sanno. Venni assunto a Venezia, quindi da Roma, dove avevo completato gli studi, mi trasferii con una valigia piena di vestiti e una piena di dvd.
“Ancora cinema!” disse roteando gli occhi, Letizia; la sigaretta come per sbaglio tra l’indice e il medio della mano destra. “Che film danno?” chiese Miriam, interessata alla sostanza della cosa. “Il Calamaro e la Balena, è uno dei primi di film di Baumbach…niente di troppo strano.” “Mmm…”, Letizia sputò il gomitolo di fumo, “…ha detto troppo! Non promette niente di buono.”. Letizia lavorava nell’ufficio amministrativo e doveva tenere alta l’attenzione su questioni tutt’altro che divertenti o interessanti, come bollette, pagamenti e intricate operazioni bancarie, perciò la sera voleva svagarsi con qualcosa che fosse di per sé allegro, e se non allegro, perlomeno incalzante: insomma, non amava di certo i film dallo spessore critico. Miriam invece aveva una lunga esperienza nel campo dell’accoglienza di ospiti e personalità di spicco; si era inevitabilmente costruita una cultura a suon di discorsi su questo o quel regista, su questo o quel film, su questa o quella scena che per un motivo o per l’altro erano rimaste come impronte fossilizzate nella storia del cinema. Disse: “Per me può andare…è quello che ha fatto anche Frances Ha, no?”. Annuii con un mugugno. Letizia feci due piccoli tiri uno dietro l’altro, come sorsi da una bibita troppo fredda, noi la guardammo con fare modesto e definitivo, come se non ci fosse più niente da fare. “Ho capito, ho capito…E film sia!”.
Cenammo con un panino e una birra, poi finimmo a bere una cosa in un bar nella piazzetta dove si sarebbe tenuto lo spettacolo. Un telo bianco imperava come una bandiera, di fronte qualche sedia ammassata e due grandi casse ai lati, nere e verticali come guglie. Noi eravamo seduti su delle sedie bianche, i tavoli argentei appoggio delle bottiglie da 33, attorno chiacchiere d’estate e bambini in bicicletta che si rincorrevano in una gara dal percorso improvvisato. Ci godemmo il tepore, la seconda birra della serata. A venti minuti dall’inizio dello spettacolo, le chiacchiere si spostarono con calma dal plateatico del bar alle sedie davanti il telo bianco. Quando vedemmo la sala all’aperto riempirsi a metà, decidemmo di segnare la nostra posizione: ci prendemmo, dopo qualche scusi, scusi, con permesso, dei posti centrali, leggermente a destra. Furono minuti di attesa, di sguardi curiosi oltre le teste in prima linea, e di zanzare all’attacco. Due tonfi con eco, il silenzio, una gola schiarita che risuona come un tuono. Un uomo aveva catturato l’attenzione di tutti, passeggiava su e giù nel corridoio immaginario formatosi tra la platea e il telo. “Buonasera, buonasera…”, il microfono vicino alle labbra baffute, “…intanto vi ringrazio per l’accorata partecipazione. Come ogni anno…”. Fece un bel discorso che si concluse con un applauso della folla paesana e un alone di ascelle sudate. “Ora, so che non era previsto ma abbiamo una sorpresa per voi. Abbiamo qui, per una piccola presentazione al film, niente di meno che…Carlo Boncuore!”. Il braccio incamiciato teso verso la destra, una figura alta, anch’essa tenuta insieme da una camicia bianca e dei pantaloni scuri; il capello sale e pepe, la faccia larga e gli occhiali sottili, gli occhi e il naso concentrati come frecce al bersaglio, e, microfono in mano, la voce bassa e gutturale. Era Carlo Boncuore, il massimo esperto di cinema in Veneto, una figura mitologica e paterna insieme. Zeus e Priamo racchiusi in un accento da vigneto. “Buonasera a tutti, grazie grazie davvero.” Ci fu un secondo applauso. “Me lo ricordo, sì!” sussurrò Letizia. “Me le cucco sempre io le sue richieste…” aggiunse Miriam. “Beh ti va meglio con lui che con molti altri…” dissi; lo conoscevo, poco, qualche veloce parola di circostanza, e l’impressione era stata quella appunto di un uomo appassionato e gioviale.
“Giusto due parole sul film che andremo a vedere. Ci sono due fattori che colpiscono per la forza e l’originalità con i quali sono stati affrontati: il primo, la trama legata alla quotidianità, il secondo, la messa in scena mai certa tra dramma e commedia. Se vogliamo, possiamo affermare che…”
“Quindi secondo te questi sono punti di forza!”. Una voce, dalla parvenza di un ruggito, sorvolò l’intera schiera di teste. Queste si voltarono all’unisono, verso l’origine dell’interruzione: un uomo, appoggiato al muretto basso che separava il lastricato da un’isola di erbetta e oleandri, fissava con le sopracciglia a v il critico. Indossava una canottiera bianca, la barba di qualche giorno chiazzava la pelle rosolata al sole. “…Prego?” disse al microfono Boncuore, allungando il collo per capire cosa stesse succedendo. Quello che era suonato strano era ovviamente quel secondo te, il tu informale. “Mi conosci, mi conosci” gettò fuori dalla bocca come uno straccio l’uomo. Boncuore rimase interdetto. “Adesso è tutto fantastico, vero? Adesso la quotidianità…”, disse quotidianità con il tono da farsa, “…è bella! E il mezzo genere…uau! Come si fa a non vivere di mezzi generi! Quanta dozzinalità nel genere classico, vero?”. Che avesse usato dozzinalità suonò, ancora una volta e per versi diversi, strano. L’uomo allargò le braccia, fece cenno con la mano come a dire di lasciar perdere, e si allontanò verso la viuzza che costeggiava l’isola verde. Carlo Boncuore, occhi fermi per qualche secondo, riprese, scusandosi non si sa bene per cosa, e continuò con la veloce analisi. Si vedeva che aveva perso quella pacatezza con la quale si era presentato. Ora aveva un che di teso, forse la pelle, forse i muscoli del corpo, forse i pensieri ammassati oltre le parole del discorso.
Il telo bianco si scurì quanto la notte, le casse crepitarono, i titoli di testa comparvero, e, dopo qualche dubbio sul battibecco unilaterale al quale avevamo appena assistito, ci dimenticammo l’accaduto e guardammo il film. Mi piacque molto, appunto per quei due punti analizzati da Boncuore; Miriam lo trovò interessante, mentre tornavamo ognuno al proprio appartamento nel cuore di Venezia annuiva a riportare in vita certi dialoghi, certe scene; Letizia, sigaretta fumata come una dea alle prese con il suo amato dolore, disse che l’aveva abbastanza annoiata, ma aggiunse che lei, in fondo, non capiva proprio niente di cinema.
2.
Fu durante i giorni della Mostra che ebbi occasione di rivedere l’uomo in canottiera, il disturbatore delle presentazione di Boncuore. Di lui ovviamente mi ero fatto una cattiva idea; avevo concluso fosse un buzzurro poco propenso all’apertura mentale, un manovale o un pescatore trovatosi lì per caso, perché lo voleva la moglie o la figlia, e pronto a dire la sua nonostante la mal celata ignoranza. Certo, c’era quell’uso del termine dozzinalità che non tornava nel mio quadro, ma ovviamente non ero un detective di casi inutili: non ci avevo di certo perso il sonno.
Ero seduto sui tavoli fuori del bar vicino a Palazzo del Cinema, sulla sponda opposta della traversa che seguiva per la darsena; mi godevo la pausa pranzo di una giornata che fino a quel momento aveva garantito sudore e tachicardia. Ero in compagnia di un collega, uno dei più anziani, Paolo Gerroni. La folla andava e veniva a gruppetti di giornalisti e di curiosi, le code si formavano e sparivano oltre i tappeti rossi sparsi come sale dopo una nevicata. Appena il cameriere posò sul tavolo il piatto -avevo ordinato mozzarella e qualcos’altro di leggero per evitare l’abbiocco- lo vidi, accompagnato da un altro uomo in giacca e cravatta nera. Lui, il disturbatore, aveva sempre un che di rovinato, come segni di incisioni sul legno, non sarebbe mai tornato nuovo, ma i tentativi di darsi un tono, un cipiglio elegante, avevano in parte funzionato: indossava una giacca sfiancata e sotto una maglia bianca, la barba curata da poco e i capelli si ribellavano in una coda di pavone disordinata. Paolo, occhiali da sole che gli garantivano protezione da molte cose, seguì il mio sguardo. Quindi lo riportò a me e chiese: “Perché fissi Remo?”. Con la forchetta inchiodò un paio di fusilli ai gamberetti e zucchine. “Lo conosci?”. Lui annuì, bocca piena, continuò: “…Era un regista promettente del Lido. Ha fatto qualche bel lavoro. Ora ci prova ancora, qualcosa gli riesce, qualcosa no. Dipende.”. “Ah” feci. La mozzarella sapeva esattamente di mozzarella. Paolo masticò, riprese: “…Aveva presentato un film molti anni fa. Sarà, quanto? Venti ormai. Forse venticinque. Rischiava di vincere la sezione giovani.” “E non è andata?” “Mmm”, Paolo ruminò, mandibola e mascella corrugavano la pelle chiazzata dall’età, “…Ai voti, si dice, che Carlo Boncuore…hai presente? Il critico…” “Certo.” “Lui ha dato un giudizio basso, eccessivamente basso. Non si è mai capito bene perché.”. Paolo bevve il bicchiere d’acqua che aveva davanti e che luccicò ai raggi del sole. “…Si dice che abbiano avuto problemi con le donne. Che Remo sia andato a letto con la moglie di Boncuore, la prima. Sai che è divorziato…La vendetta. Servita nel modo peggiore.”. Bevvi anch’io un goccio d’acqua, annuii appena. “E il film si può ancora vedere da qualche parte, secondo te?”. Non sono sicuro del perché feci quella domanda, forse perché la parte di me che amava progettare e dare vita a storie, messa un po’ da parte negli ultimi anni, urlava allo scandalo, era pronta a dar battaglia -anche solo nella mia mente- ai critici tanto educati e affabili quanto tessitori implacabili di trame oscure; forse perché mi sentivo in colpa per aver bollato come ignorante e buzzurro un uomo che invece avrebbe dovuto godere della mia stima, e se non l’uomo, almeno l’artista. “Dovresti chiedere. Nel nostro archivio trovi sicuramente la lista dei film con il titolo, poi non so…dovresti trovare la videocassetta. Chi le tiene più?”. Ordinammo due caffè, il loro aroma aveva un che di energico, quindi li mandammo giù in un sorso e ci alzammo per pagare.
Aspettai che la Mostra del Cinema si svolgesse come da copione, con i suoi soliti momenti di attesa e sorpresa. Una volta finita ripresi i consueti tempi di lavoro e, in un pomeriggio piovoso ma senza vento, mi fiondai al nostro archivio, dove, con un fare da avvocato nei film sui grandi processi, studiai i film presentati nelle sezioni di varie annate. Riuscii a recuperare il titolo: si chiamava “Verso le onde, oltre la spiaggia”. Concorso Emergenti anno 1997. Lo scrissi su di un foglietto, così per esser certo di non doverlo imparare a memoria, che consegnai all’addetta, Francesca, una donna dalla schiena dritta e i capelli biondo castani sempre a forma di voluta. Facendo un controllo incrociato -quando mi disse che ci voleva un controllo incrociato mi sentii, oltre che un avvocato in carriera, anche un detective nei guai e con un certo stile nel risolverli- venne fuori che la piccola biblioteca del Lido aveva ancora noleggiabile la videocassetta. La ringraziai, e considerai, per quel giorno, di aver fatto a sufficienza. L’indomani sarei andato a scovare la videocassetta.
Pausa pranzo di una calma giornata di lavoro. Pioveva ancora, il periodo era adatto: settembre, fine estate. Stetti a cincischiare con Letizia e Miriam un po’, poi le salutai e raggiunsi a piedi la biblioteca, a qualche via dalla sede di lavoro. Entrai in un disimpegno che dava su una scala, la feci per due piani, fino a trovarmi davanti ad una porta trasparente, larga come quelle antipanico. La superai, il fruscio dell’anta, il profumo di carta e inchiostro da stampante, e mi ritrovai nel salone, piccolo, quasi scuro, della biblioteca. Gli scaffali percorrevano le pareti; sulla sinistra, in fondo, avevo scorto una saletta di lettura; io andai sulla destra, al banco a forma di mezzaluna, con il piano in acciaio cromato e una ragazza sulla ventina scarsa a darmi il benvenuto. “Buongiorno. La posso aiutare?”. Aveva un bel sorriso e il viso ricordava una delle Spice Girls: quella mora. Se non fosse stata così giovane e io non l’avessi paragonata a una delle Spice Girls, il che da un grosso indizio sulla differenza d’età, l’avrei coinvolta di più nel mio caso. Invece rimasi piuttosto distaccato, chiedendole semplicemente: “Avete ancora vhs…videocassette, per caso?”. Lei mi guardò corrucciata, la domanda evidentemente non era usuale. “Abbiamo ancora qualcosa oltre la stanza di lettura, sullo scaffale in fondo. A lato.”. La ringraziai, mi feci spiegare meglio cosa intendesse con oltre, in fondo e a lato, e percorsi la strada seguendo le indicazioni. Mi ritrovai, dopo la sala di lettura vuota con un tavolone centrale a mo’ di tavola rotonda, su uno stanzino che aveva la grandezza di uno sgabuzzino. A lato, come da navigatore, c’era un mobiletto basso, una vetrina sottile a dividere me da una schiera confusa di vecchie videocassette con la loro custodia rigida, la banda con il titoli gialli rossi, blu; tondi o squadrati; sottili o larghi; comprensibili o meno. Feci scorrere la vetrina e l’indice sui titoli, che, avevo intuito, andavano in ordine alfabetico. Dopo qualche secondo e una buona dose di polvere raschiata, trovai “Verso le onde, oltre la spiaggia”. La grafica della custodia era semplice: la foto di una ragazza in riva al mare, la scritta centrale a caratteri come allungati blu, e sotto in piccolo
Regia e Soggetto
Di
Remo Bordin
Lo presi a noleggio, firmai tutti gli incartamenti -mi ero dovuto registrare- e me ne andai con la garanzia di poter tenere il prezioso oggetto della mia ricerca per un mese abbondante. Ma tanto lo sapevo, tutti quei giorni non sarebbero serviti: lo avrei guardato entro il week-end. Tempo di recuperare un videoregistratore funzionante.