
Scrissi il primo romanzo nel non troppo lontano 2019. La mia passione per la scrittura stava sbocciando e volevo fare colpo su una ragazza che lavorava in un ufficio a qualche piano sopra il mio. Per cui pensai ad una storia a cui potessi tenere -che avesse qualcosa in più della semplice romanticheria- e poi ci infilai il corrispondente mio e della ragazza nei due personaggi principali. Mi ci impegnai, lo ricordo bene. Non lasciavo passare giorno senza scrivere almeno mezzo migliaio di parole, che avrei riguardato e corretto l’indomani, prima di avanzare di altre -minimo- cinquecento parole. Mandai parte del romanzo ancora incompleto alla ragazza, che nel frattempo aveva cambiato lavoro e si era trasferita. Le piacque molto, lo capii dalla lunga sequela di pareri che mi scrisse dopo la lettura e dall’entusiasmo che quei pareri trasudavano. Dato che il suo entusiasmo alimentava il mio, mi ritenni più che soddisfatto. Sapevo che il nostro rapporto non avrebbe raggiunto i traguardi a cui le mie fantasie da uomo miravano, lei aveva una relazione seria che di lì a poco si sarebbe trasformata in un vero e proprio matrimonio, ma poco mi importava, sentivo di aver creato una sorta di connessione tra me e lei -una connessione unica e intima- grazie al mondo che avevo messo su carta. Si insinuò la speranza di crearne altre di queste connessioni, di riuscire a dare qualcosa a chi mi avrebbe letto. Avrei scoperto un po’ di tempo dopo che quel qualcosa era l’intento principale di alcuni tra i più famosi romanzieri; Murakami ne Il mestiere dello scrittore scrive che ci sono due cose importanti, ovvero creare qualcosa che abbia un significato e l’esistenza di lettori, pochi o molti che siano, in grado di dare il giusto valore a quel significato. Ecco: provavo una cosa del genere, solo che non sapevo ancora bene come spiegarmela.
Finii il romanzo e lo feci leggere a mia madre e a qualche amico. Consideravo già un miracolo che qualcuno avesse voglia di passare attraverso centocinquanta pagine scritte dal sottoscritto, ma rimasi ancor più sorpreso delle impressioni suscitate e legate al tono della storia. Sono abbastanza fissato con la tonalità, con quella che viene spesso definita la voce dell’autore. Un’impronta riconoscitiva determinata dall’insieme di parole e immagini pronte ad esplodere e mescolarsi nella mente del lettore. Volevo prima di tutto essere riconoscibile: avere il mio modo di raccontare le cose. Poco importava del resto, del mondo dell’editoria o dei complimenti gratuiti. Volevo che mi si leggesse e si pensasse: “Ah, è lui! Mi piace” o “Ah, è lui! Quanto mi ammorba”. Interrogai i miei amici sui possibili difetti della storia e ognuno diceva la sua, chi parlava di un’ironia a volte troppo facilona, chi accennava ad una necessità di colpire meglio il cuore delle scene (in sostanza: di non perdersi troppo). Tra una correzione e l’altra, e tra molti dubbi a sommarsi velocemente, spedii il manoscritto alle case editrici in cerca di un riscontro esterno al mio giro di conoscenze, convinto che fosse il vero parere da ricercare, quello di un lettore sconosciuto e lontano. Non ottenni alcun tipo di risposta. Mi informai meglio, le finte opzioni per uno scrittore saltano fuori come formiche. Scelsi una delle tante agenzie letterarie a pagamento, 350 euro per avere una scheda di valutazione e una rappresentanza a loro discrezione.
Elogiarono la scrittura, non la trama. Bocciarono il protagonista: troppo indeciso, troppo indolente, troppo pigro, troppo ragazzo da divano. Ricordo una chiamata al telefono di un amico, in cui, scheda di valutazione alla mano, analizzammo i commenti e disse: “Ma alla fine somiglia a te…tu sei così”. “Infatti”, risposi, sconsolato non tanto per quello che ero ma dalla brutta figura che aveva fatto la mia persona all’interno di un romanzo. Ad ogni modo, anche se all’inizio fui contrariato dalla bocciatura, con il tempo trovai nella scheda alcune buone ragioni.
Con lo stesso romanzo partecipai al concorso letterario “Io Scrittore”, organizzato dal gruppo editoriale Mauri Spagnol. Come funziona? Carichi i primi capitoli, i concorrenti diventano anche lettori e giudici, e i migliori passano in finale, e solo a quel punto puoi caricare il romanzo completo. Se non arrivi in finale, puoi leggere in ogni caso i commenti dei lettori-giudici. Non arrivai in finale ma, sempre nell’ottica del mio intesse mi piaci-mi ammorbi, ricevetti dei responsi soddisfacenti. Ne riporto due di seguito, uno positivo e uno negativo.
1
L’autore (anche se ha uno strano pseudonimo numerologico e plurilingue) è uno che sa scrivere. Su questo non ci sono dubbi. La descrizione di un evento banale come la celebrazione di un matrimonio è descritta nei suoi particolari di rito esaltandone la superficialità e talvolta la ridicolaggine in modo perfetto, con le parole giuste che, per chi vi ha partecipato come invitato e non è ipocrita, lo riportano a quei momenti di vera noia ravvivati solo (quando si era fortunati) dalle occhiate a qualche presenza femminile più appariscente. E qui sono ben scritte quelle rivolte prima alla bionda e poi a Giulia. La scrittura è sempre leggera; anche se, dopo una partenza a tutto gas, sembra rallentare un po’ con qualche dialogo superfluo. (una pennellata sbagliata in un quadro di buona fattura). Però poi riprende con una buona velocità fino alla fine. Il personaggio di Roma andrebbe sviluppato un po’ di più perché è un caratterista di rilievo che potrebbe (o potrà?) avere parte nel seguito. Si legge bene tutto, benché il racconto, almeno in questo incipit, non abbia una vera trama. E questo significa che l’autore sa scrivere. Mi ricorda uno scrittore che leggo con gusto: Marco Malvaldi. Spero sinceramente di poter leggere anche il seguito.
2
Magari domani* avrei espresso un giudizio migliore, non dopo aver partecipato al matrimonio di mio cugino svoltosi pressappoco così, bagno in piscina compreso. Personaggi un poco sopra le righe, atmosfera da sit-com televisiva. Steccato letterario da brochure pubblicitaria.
(*il titolo del romanzo)
Intanto nel blog, aperto nel lontano 2018 e dove avevo pubblicato qualsiasi cosa mi passasse per la testa, cominciai a caricare racconti più strutturati. Con un’idea, un bilanciamento del momento descritto, un equilibrio tra il detto e il non detto. Arrivò la pandemia, e quasi per caso -forse i ringraziamenti all’algoritmo e ai cookies spioni- trovai l’annuncio di un concorso di racconti sulla pandemia. In palio la pubblicazione in una raccolta, la premiazione a Roma…Perché no? Non c’era molto da fare. Mi misi a scrivere un racconto dal punto di vista del virus, l’unico -avevo pensato- a muoversi parecchio in quel periodo e addirittura oltre confine. Avevo inserito qualche battuta eccessiva (d’altronde per il virus la nostra morte non doveva poi essere questa grande tragedia) e, dato lo sgomento ancora palpabile, vista la possibilità di mandare fino ad un massimo di due racconti, decisi di scriverne un secondo più morbido, nel quale i buoni sentimenti di cui sembravamo necessitare esaltassero un finale intriso del mantra andrà tutto bene. Preferivo il primo -anche mia madre- ma fu ovviamente selezionato il secondo, sia per la scrematura inziale che per la selezione finale.
Nel frattempo avevo gettato le basi per un altro romanzo. Cercando di migliorare la trama, di arricchirla rispetto al primo tentativo, mi mossi sul terreno della fantasia a trecentosessanta gradi. Non volevo fare colpo su nessuna ragazza: solo scrivere una storia. Raccontare un’idea nuova che avevo del mondo e che avevo iniziato a scorgere grazie alle letture e alla visione di qualche film. Mantenendo o tentando di mantenere sempre il mio tono, la mia voce. Optai per una struttura ritmata, a punti di vista alternati dei due protagonisti. In sei mesi avevo finito la prima stesura, quindi passai a farlo leggere qua e là. Per alcuni sembrava funzionare meglio del primo libro; ad altri invece piacque meno. Lo rilessi e lo corressi; poi ancora, e ancora, e ancora. Quattro volte. Portai avanti il blog e aggiunsi una collaborazione saltuaria con un quotidiano online. Partecipai ad altri quattro concorsi di racconti, forse cinque. Venni pubblicato nella raccolta di finalisti di uno di questi quattro o cinque; il concorso si chiama Caffè Corretto e, se la struttura è rimasta invariata, invita i concorrenti a continuare un incipit comune. A differenza del racconto pubblicato per la pandemia, di questo ancora non ho iniziato a vergognarmene. Sembra tener bene.
Partecipai di nuovo al concorso “Io Scrittore” con il secondo romanzo. Di nuovo, non passai in finale; di nuovo, restai soddisfatto dei commenti. Di nuovo:
1
C’è poco da dire, perché funziona tutto benissimo. L’autore è in grado, il più delle volte, di evitare banalità e frasi già sentite, di trovare insomma una sua dimensione e la sua voce, che è una voce intima, semplice, spiritosa -che non “prova” a dire, ma dice e basta: non si sente alcuno sforzo. Un momento meraviglioso è la conversazione su chat, che mi ricorda moltissimo quella con i sottotitoli di “Annie Hall” di Woody Allen. Credo che un editore comprerebbe volentieri questa roba.
2
L’incipit ci racconta di Antonio, portiere notturno di un noto albergo e Giada, giovane donna, dipendente della Culturale. Il racconto descrive inizialmente la vita quotidiana dei due protagonisti e il loro primo incontro/scontro. Non ho trovato nulla da eccepire nella sintassi, tuttavia ho trovato il romanzo piatto. I personaggi, che sono delineati solo in alcuni tratti caratteriali, non trasmettono niente. Antonio è un lavoratore disilluso, a tratti sembra un uomo sfaticato. Giada è una donna in carriera, risulta quasi ossessionata dal suo lavoro, in alcune descrizioni nevrotica. Il primo incontro tra i due è banale. Il secondo incontro quasi imbarazzante. La storia è un resoconto dei loro spostamenti più che una narrazione fluente. Purtroppo, non posso dire di averlo apprezzato nel modo giusto, poiché la mancanza di elementi innovativi non ha permesso di appassionarmi al romanzo.
Le case editrici continuavano il loro silenzio: era come mandare le mie storie verso lo spazio profondo in una navicella senza carburante sufficiente per il ritorno. Sempre grazie all’algoritmo, su un banner pubblicitario di Facebook, pochi mesi fa ho notato la confessione di una casa editrice che opera attraverso il crowdfunding. Sotto l’immagine di una ragazza che legge ammaliata, lo slogan recitava: Leggiamo e valutiamo ogni lavoro ricevuto. Ci ho pensato su, non molto per la verità, perché se non altro ci sarebbe stato un riscontro. L’idea del crowdfunding non mi faceva impazzire ma avevo tempo per definire o meno la pubblicazione, quindi ho mandato il romanzo.
Tre settimane abbondanti e la valutazione della casa editrice era positiva. Potevo inviare i miei dati per poi ricevere il contratto da leggere e firmare. Mi sono preso qualche giorno. Il crowdfunding consiste nel chiedere in anticipo l’acquisto delle copie del libro; la casa editrice, una volta raggiunte le duecento copie, procede con la lavorazione -correzione bozze, editing, grafica. In concomitanza con la pubblicazione vengono consegnate le copie a chi ha effettuato il preordine. Nel caso di mancato raggiungimento dell’obiettivo, avviene il rimborso e non vi è alcuna pubblicazione. Sono rimasto incerto: assomiglia molto ad un’autopubblicazione ma ci sono differenze sostanziali, come l’apporto di professionisti nel processo di lavorazione. Dato che volevo essere convinto al massimo del prodotto che stavo per vendere -una vendita a scatola chiusa per giunta- mi è venuto in mente di proporre sempre alla stessa casa editrice una raccolta di racconti. Partire prima con questa e, casomai in un secondo momento, tentare anche con il romanzo. Perlomeno -ho pensato- i racconti sono stati disponibili sul blog fino alla settimana scorsa e le persone bene o male li conoscono, o hanno avuto la possibilità di conoscerli. So cosa intendo io e lo sa anche chi deve comprare un’eventuale copia: diciamo che la scatola chiusa avrebbe avuto un coperchio rimovibile da cui spiare.
Bookabook, questo il nome della casa editrice, ha valutato positivamente la raccolta e martedì 17 alle 17.30 comincia la campagna di preordini. Visti i 13 euro di spesa, spero vi piacciano le storie che ho scelto, o che almeno vi ammorbino.