
Ora sarei il cattivo, quello che ho sempre voluto evitare di essere. Cioè, sarei come Pinguino o Due Facce di Batman? Non ci credo. Mi viene da piangere. Piango. E tutti continuano a guardarmi come se stessi ridendo alla Joker. Mia mamma. Mio papà. Il papà e la mamma di Danilo. Penso di avere un po’ di ragione e loro pensano che sia dalla parte del torto, e se loro lo pensano, lo penso anch’io, e allora ho una confusione in testa che non mi aiuta con le lacrime. Non capisco. Ma forse è meglio che racconto i fatti per filo e per segno. Li distendo dentro la mia mente come un film, e cerco di capire, o di capirmi.
Ero in classe, la maestra Tiziana stava parlando dei mammiferi. Alla lavagna c’erano le forme di un cervo, con delle belle e nobili corna, e di un leone, con la criniera e lo sguardo da ti faccio male se ti avvicini; qualche parola e frecce, mi ricordo “allattamento” e “vertebrati”. Fuori c’era il sole che lottava con delle nubi grigie e grandi, ogni tanto vinceva e i suoi raggi finivano sul mio quaderno a quadretti. Il mio posto si affaccia alla finestra. E’ vero, ogni tanto mi perdo a guardare il parco della scuola. Mi piacciono gli alberi, in qualche modo sono fermi e in qualche altro modo crescono e questo mi riempie di curiosità e di speranza, perché anch’io voglio crescere così. In silenzio e senza per forza dovermi muovermi verso gli altri. Ogni tanto mi perdo anche a disegnare. Mi impegno a scrivere le parole alla lavagna delle maestre ma ad un certo punto (sì, forse un punto non troppo in là) la matita segue altre forme, proiezioni strane che avevo in testa di aquile guerriere o di cani arrabbiati. Personaggi, credo; robe da cartoni animati, ma per bambini grandi. Non piccoli. Quella mattina in realtà mi sono messo a disegnare la mia versione del leone. Volevo metterci un casco da pattini e un’armatura da cavaliere sul corpo. Arrivato alle zampe, agli artigli per la precisione, che avrei fatto lunghi e pericolosi come quelli di un velociraptor, ho sentito un leggero colpo alla testa. Mi sono tastato i capelli (ho un caschetto castano chiaro di cui sembra essere padrone mio padre, non mi lascia mai decidere il taglio quando andiamo dal barbiere) senza trovare niente di strano. Mi sono girato e ho visto ridere Francesco e Danilo ai banchi della fila centrale. I loro sbuffi di allegria cercavano di mantenersi nascosti, non volevano farsi vedere dalla maestra. Sulla mano destra di Francesco, piccola nella realtà, grande come Excalibur nel mio cervello, il corpo di una Bic svuotata e usata -ho immaginato- come cerbottana. Il bersaglio: la mia testa. Dentro di me ho sentito una pressione. Si chiama rabbia, e il suo effetto è velarmi gli occhi, come se stessi per piangere da un momento all’altro. Ma non l’ho fatto e sono tornato al mio leone. Ero abituato alle seccature di quei due.
Non li odio proprio, quei due. Fanno così un po’ con tutti. Ma nell’ultimo periodo mi hanno preso di mira. Non ho capito bene perché. Forse per la squadra di calcio. Io cerco di comportarmi come un albero. Fermo e silenzioso. Passare il tempo a disegnare senza che nessuno veda quello che sto facendo. E’ importante che nessuno veda quello che sto facendo. E me ne sarei stato buono, se loro non avessero fatto quello che hanno fatto.
Durante l’ora di educazione fisica abbiamo giocato proprio a calcio. Il maestro Filippo è un po’ uno scemotto. Secondo me è troppo giovane ma ok, può migliorare. Non veniamo tutti a scuola per migliorare? Io sono bravo a calcio e gioco con la squadra della città. A differenza di Francesco e Danilo, che, anche se fanno tanto i numeri uno, giocano da anni nella squadra di paese dove abbiamo iniziato tutti. Il maestro ha diviso la classe in due, e ha messo insieme, non so se per sbaglio o a posta, i pochi che giocano nella squadra di città. Era chiaro che, dall’altro lato, ci fosse qualcuno arrabbiato in cerca di vendetta. Francesco è riuscito a fare male ad Alberto. Ha fatto una scivolata forte da dietro e lo ha colpito alla caviglia. Peggio di un treno, vi giuro. Per il resto, abbiamo vinto. Anche se avevamo più ragazze dalla nostra parte (non sono tanto brave).
In ricreazione si è parlato un po’ della scivolata. Francesco ha detto che Alberto è una pippa. Non so bene cosa voglia dire ma non ho neanche chiesto spiegazioni. Poi Francesco e Danilo se ne sono andati. Mi ricordo esattamente le spalle larghe, i giubbotti ancora più larghi allontanarsi verso l’entrata della scuola.
Quando la classe è rientrata, ho capito cosa intende la maestra di religione per inferno. Quei due avevano tappezzato le pareti con i miei disegni. Avevano spezzato le pagine del mio quaderno e avevano attaccato con la colla le pagine. Mi ricordo le risate. Mi ricordo qualche presa in giro sui miei personaggi. Ho sentito di nuovo la pressione, e questa volta l’ho sentita uscire. Mi sono messo a piangere. I denti li ho tenuti stretti. Come se fossero nemici, quelli su con quelli giù. Non saprei dire cosa è stato. Ho preso la Bic vuota sul banco di Francesco e mi sono diretto verso Danilo, che stava facendo mosse strane di fianco ad un mio disegno. Credo di aver fortuna in un certo senso. Ho mirato all’occhio con tutta la forza che avevo ma non pensavo di centrarlo per davvero. Invece la Bic si è conficcata per un secondo, come in uno di quei film di guerra e di cavalieri. E’ schizzato sangue, credo. Misto a qualcos’altro. La maestra appena è entrata ha urlato. Hanno urlato tutti. Io non ho guardato Danilo. La verità? Mi sentivo male, mi dispiaceva. Piangevo in preda ad una strana disperazione. Perché ero anche contento. Una contentezza segreta, che non capisco perché ci sia.
Continuano a guardarmi male qui in ospedale. Danilo rischia dei danni permanenti all’occhio. E a me dispiace, e sono un po’ contento in segreto, e piango. Volevo essere un buono, volevo assomigliare a Batman ma forse sono solo un cattivo. Ho paura di essere solo cattivo. Mi asciugo le lacrime con le maniche della felpa. E cerco di consolarmi con una promessa. Se Danilo guarisce -dico ad un Dio immaginario di cui non conosco le forme ma che spero abbia grandi orecchie- giuro che non disegno più personaggi con armi e armature. Ma solo alberi.