
Il giorno in cui decisi di chiedere di uscire a V ero in biblioteca e l’avevo vista passare per il piazzale davanti all’entrata. Aveva un modo di camminare tutto suo, come se fosse una danzatrice su un palcoscenico, le punte dei piedi si posavano con una naturale leggiadria. Portava dei jeans Levi’s larghi e alti in vita, e una maglia bianca. Gli occhi vagavano, come curiosi ma calmi, senza alcuna fretta. Io stavo fumando una sigaretta ed ero in compagnia di alcuni amici; quando rimasi solo (rifiutai un aperitivo al bar, diniego che fece corrucciare l’espressione a più di un compare), mi fiondai al secondo piano della struttura, dove si ammassavano i tavoli da studio e da consultazione dei testi. La luce era forte, bianca, e cadeva da lunghi neon pensili. Feci uno zig zag strano per raggiungere i libri alla mia postazione e nel mentre studiai le facce intente a scrutare e ricordare parole e parole sui libri piegati a metà come fossero nudi e con le budella di fuori. Non è lei, non è lei, non è lei, non è lei…I capelli su un castano chiaro quasi cenere cadevano oltre il viso, viso che si alzò leggermente e lasciò vedere le labbra carnose, poi, un’angolazione ancora più ampia, e gli occhi che prima vagavano, vagavano ancora. E’ lei! Capii bene dov’era seduta. Quarta tavolata, lato destro. Presi i libri e scesi, li misi nell’armadietto e tornai nell’atrio, un corridoio grigio e da chiacchiere soffuse che precedeva la scalinata. Espirai, inspirai, poi feci il contrario e poi di nuovo il verso giusto: insomma, respiravo. Ma più rumorosamente del solito. Dovevo assolutamente presentarmi e chiederle di venire a bere un caffè. L’indomani, o dopodomani. La prossima settimana? Anche. Quando poteva; io mi sarei liberato da eventuali impegni. Era ora o mai più, pensai. Perché lo pensai?
Dovete sapere che la città in cui vivevo e vivo tuttora ha una strana predisposizione che prevede la possibilità di conoscere tutti ma in cui, nel concreto, si finisce per conoscere il più delle volte di vista o per nome. Io V la conoscevo di vista e per nome appunto; d’altronde era una bella ragazza, una di quelle che si nominano nella lista delle bone dei vari licei. E conoscevo anche qualche sua amica. Era capitato di annusare una conversazione poco prima di quel giorno in biblioteca, proprio da una sua amica, che diceva che V sarebbe tornata a Milano a breve. Quindi ora capirete meglio l’ora o mai più. Certo, non sarebbe tornata a Milano per sempre, ma andate a saperlo se si fosse mai ricreata una situazione simile.
Presi coraggio, o lo presero solo le mie gambe: in realtà avevo ancora un certo panico che mi premeva sul petto. Cominciai a salire le scale, presi il corridoio similballatoio sulla destra, il cigolio delle mie scarpe sul parquet chiaro, ancora cigolio, ancora cigolio, pensai no no no davanti al salone, e ripresi la strada per il corridoio similballatoio a sinistra, scesi le scale, di nuovo nell’atrio. Non ce l’avevo fatta: il peso sul petto aveva vinto sul coraggio delle gambe. Era semplice, pensai. Mi presento. “Ciao, sono Elpuberamato. Tu, se non sbaglio, sei V? Sai ti ho vista passare più e più volte in bicicletta per le stradine del centro, mi sono sempre piaciuti i vestiti che metti (di vista, mi pareva mettesse spesso dei bei vestiti pieni, come dire…di stile). E ti ho sempre messo nella lista delle bone del liceo, sempre tra le prime tre. Non vorrei disturbarti mentre studi, anche se lo sto facendo senza dei reali sensi di colpa, ma mi chiedevo, così, en passant, se ti va di prendere un caffè con me. Che dici?”. Facile, eppure. Ripresi a respirare, a concentrarmi sulle gambe. Partii di nuovo, e di nuovo tornai giù. Era così difficile buttarsi in una colossale figura da imbecilli? Ci voleva tanto? Avevo amici che -vi assicuro, sono stato più volte testimone- non si facevano tante remore. Respirai ancora, credo di aver fatto anche qualche gesto per sciogliere i muscoli; quelli che fanno i calciatori sul tunnel prima di entrare in campo. Mi concentrai sui passi, un passo alla volta, un passo alla volta. Il parquet cigolò, ma non ci badai. Puntai dritto verso il tavolo dov’era seduta V. Non stavo pensando più a niente, il che, a ripensarci, non fu proprio un bene. “S-scusa?” dissi. Sottovoce, com’era limitatamente accettato in biblioteca. Lei alzò la testa dal libro e mi guardò, gli occhi azzurrogrigiognoli come l’acqua del mare. Al posto della testa cominciai a sentire un palloncino. “Tu sei V…finalmente ti conosco!”. Avrei voluto sprofondare, sparire, rintanarmi nella camera da letto e rannicchiarmi sul letto che avevo fin da bambino; finalmente ti conosco…come se fosse capitato! Lei mi guardò come se fossi un ragazzo che…un ragazzo che. Difficile dire altro in certi casi. Credo di aver sorriso per stemperare la tensione, lei continuava a fissarmi, aveva anche leggermente aggrottato le sopracciglia. “Mi chiamo Elpuberamato, ehm, sono, sono, un amico di S e di T (conoscenze comuni, tanto per trovare un appiglio e un senso) e mi chiedevo se ti va di bere un caffè con me.”. Ero teso, letteralmente teso, anche il tono di voce ricordava le vibrazioni di un elastico. Lei aprì leggermente le labbra in una O, sono ancora indeciso se in un gesto di stupore o di imbarazzo. Guardò il libro, poi davanti a sé, poi di nuovo me. “…Ma adesso?” mi domandò. Domanda lecita, data l’ora. “No, no, no. Nei prossimi giorni.”. “Oh, nei prossimi giorni”. Ci pensò. “Sono un po’ incasinata con lo studio, non saprei.”. Sentii tutte le speranze volare via dal corpo come un piccione parte dai cornicioni. “Ah, beh. Non preoccuparti. Io ti chiedo l’amicizia su Facebook e poi mi dici. Che dici?”. La ripetizione è solo per onorare il vero degli accadimenti. Lei sorrise, fece un sì con la testa, poi disse: “Ok, dai. Certo”. “Ti lascio studiare, scusa.” “Oh, figurati!”. “Ci sentiamo.” “Ciao!”. Feci ciao con la mano, e tornai giù. Espirai profondamente, rimasi a bighellonare qualche secondo, il tempo che la testa riprendesse il suo peso. Non avevo concluso niente, ma ero comunque soddisfatto, se non altro che avesse vinto il coraggio delle gambe. E poi ora potevo giocarmela scrivendole su Facebook. Non ero più uno sconosciuto adesso, ma Elpuberamato, quello che molesta le ragazze mentre studiano in biblioteca. Tirai un sospiro di sollievo.
Le chiesi l’amicizia e le scrissi la sera stessa, in un clima di gaia agitazione; era da un po’ che non mi buttavo a pesce nel corteggiamento di una ragazza. Qualche tempo prima ero stato piantato da C e la cosa aveva lasciato degli strascichi lunghi e profondi. “Ciao V, eccomi. Allora, per quel caffè?”. Cercai di buttarla sul ridere e di insistere insieme, e la tattica, anche se tattica è esagerato, funzionò. Ci demmo appuntamento al bar vicino alla biblioteca.
Ci trovammo in un parcheggio –mi ricordo ancora la sua macchina rossa dalle linee inizi anni ’90- e ci avviammo verso il bar. Era un giorno d’estate, caldo e soleggiato, le fronde degli arbusti sulle vie di quella zona della città a farci da ombra. Prendemmo il tavolo addossato alla vetrina senza tende. Ordinai un caffè, lei un macchiato e una fetta di torta. Lei cominciò a raccontarmi di sé, e io cominciai a guardarla. Quei suoi occhi, che anche fissandomi, sembravano vagare tra i suoi pensieri, mi mettevano in uno stato di crisi profonda. Tendenzialmente, appena conosciuta una persona, sparo un mucchio di scempiaggini, ma con lei, la mia mente si sentiva in dovere di mettere da parte le battute e gli scherzi e trovare qualcosa di intelligente, di molto intelligente, e di interessante, di molto interessante, da dire. Ed evidentemente la mia mente in quell’ambito necessitava di qualche lezione o ripetizione perché avevo un vuoto totale. Rispondevo alle sue esperienze di studio, che trovavo particolarmente interessanti, con dei vaghi “Davvero? Però!” o “Caspita!”. Quando toccò a me raccontare delle mie esperienze, lo feci recitando un po’ la parte del sapiente. Da ragazzo di tot anni che sa cos’ha visto e cosa ne ha tratto. All’epoca non avevo ancora scoperto la scrittura -ero alla ricerca di qualcosa ma non potevo dirlo, anche perché in fondo non lo sapevo- e se si unisce la questione della relazione con C, l’autostima aveva bisogno di far finta di esserci. Ci salutammo con un “Ci vediamo presto”, e, tornando verso la mia macchina, decisi che V andava oltre le mie capacità di conquista. Non avevo le armi adatte per affascinarla.
Ma, ovviamente, non dimenticai né i suoi occhi né le sue idee e i suoi pensieri.
Un anno dopo andai a trovare un amico a Milano e sapendo che lei frequentava lì l’università, le scrissi se le andava di vederci per una passeggiata. Era impegnata, super impegnata, con la tesi, ma mi scrisse anche che sarebbe riuscita a farmi fare un piccolo tour della città uno dei pomeriggi del mio soggiorno. Quella volta ci trovammo in piazza Gramsci, lei arrivò in un abito leggero, di cotone bianco. Io avevo messo una maglia blu a maniche lunghe, con tre bottoncini sul collo. Camminammo verso la fermata del bus. Mi aveva chiesto cosa volevamo fare, e io le avevo dato carta bianca, data la mia quasi nulla conoscenza della città, quindi lei optò per muoverci verso una zona più vicina al centro. Scendemmo ad una fermata poco lontana da Brera. Ci immergemmo nel quartiere che il sole tracciava una linea sottile e fosforescente sopra i tetti dei palazzi. Attorno, nei terrazzini dei bar, si ammassavano chiacchiere e aperitivi e sulle strade si muovevano imperterriti giovani skater e avvocati preoccupati per l’indomani. Ci infilammo in un chiostro, e ci sedemmo a bere una birra presa in un piccolo negozio di alimentari. Mi parlò di un progetto che aveva dovuto seguire durante il tirocinio svolto in una città straniera. I suoi occhi sembravano sempre vagare, come eccessivamente distratti da quel che stava dicendo. Il lavoro aveva previsto una costante e impeccabile minuzia, per costruire, o restaurare, o mantenere -non ricordo con precisione- un’opera d’arte esposta in un museo. La precisione e la voglia con cui mi raccontò tutta la faccenda – i suoi movimenti, e i rapporti con l’artista, e le difficoltà- mi fecero capire, o perlomeno sospettare, che V fosse un’eccezione. Un’eccezione autentica, difficile da scovare perché non legata ai dettami dell’apparenza. A differenza delle poche persone che avevo conosciuto nel suo ambito, di studi o professionale, sempre pronte a gesticolare e a parlare con una certa solennità della materia come se la verità del mondo si trovasse proprio lì e proprio loro l’avessero scoperta, a V sembrava interessare solo la materia, nella sua semplice complessità. Finimmo la passeggiata che si era fatto buio, ci salutammo all’inizio del Naviglio Grande e raggiunsi il mio amico, che era a trangugiare una pizza al trancio davanti all’insegna del Libraccio.
Passò del tempo, cosa in genere abbastanza ovvia.
Ero stato assunto nella macchina organizzativa di una mostra importante di Venezia: dovevo selezionare, tra la montagna di e-mail di richiesta, chi aveva diritto all’invito per la pre-apertura. Tra una risposta e l’altra, sì e no precompilati in un linguaggio ultraformale; tra una protesta e l’altra per i rifiuti, in linguaggi non proprio formali; mi capitò di trovarmi l’indirizzo e-mail che portava il nome di V e il museo di Roma dove lavorava da un paio d’anni (c’eravamo sentiti, ogni tanto, tra un passaggio di tempo e l’altro). Le mandai la foto della sua richiesta, ci facemmo una risata, e poi, senza tentennamenti, anche se non ne aveva alcun diritto, le mandai la conferma dell’invito.
Ci vedemmo quindi durante il periodo della pre-apertura. Lei venne con il suo ragazzo – anche lui operava nello stesso ambito di V- e ci incontrammo a Venezia, una sera di pioggia, davanti alla zona del mercato del pesce di Rialto. Mi ricordo che mi chiese abbastanza sbalordita come mai fosse tutto già chiuso. Annuii, ammisi che Venezia non era una città per sonnambuli, al massimo per soli sonnambuli solitari. Tutti e tre andammo a prendere qualcosa da mangiare e da bere in un bar dei cinesi in campo San Cassiano. La pioggia batteva forte, dava un tocco di grigio al blu serale. Unici clienti, con davanti un toast e una birra, parlammo di cosa era esposto in mostra. Delle loro impressioni, dato che io avevo avuto poco tempo di farmene e quelle che mi ero fatto erano imbevute di una marcata ignoranza. V, come al solito, prima di dare una definizione alle sue parole, vagava con gli occhi, e io, come al solito, nonostante il tempo passato, il ragazzo e le mie attenzioni ad altre ragazze, mi sentivo leggermente in soggezione. Il solito palloncino al posto della testa, al cui interno annaspavo naufrago alla ricerca di particelle d’intelligenza.
Dopo un veloce caffè nel periodo natalizio dello stesso anno, in cui entrambi eravamo tornati a goderci le lucine della nostra città (in quanto a lucine, credetemi, la nostra città meriterebbe un premio), ci riuscimmo a trovare nell’anno della pandemia. Ero risultato tra i finalisti di un concorso di racconti, e ci sarebbe stata la cerimonia e la consegna degli attestati a Roma. Piccolo inciso: anche V qualche tempo prima era stata selezionata con un suo lavoro per una mostra di emergenti vicino a San Marco. Appena saputo, ero andato a vedere cosa aveva combinato, e trovai la sua opera decisamente interessante, come fosse il frutto di una ricerca, un’esplorazione dall’ambizione incerta, che in fondo è la mia personale definizione di arte. Comunque sia, ci eravamo accordati per vederci a Roma, dato che lavorava ancora lì, sempre nello stesso museo. L’appuntamento, deciso da V, era davanti ad una chiesa, in cui avrebbe voluto farmi vedere una scultura che le piaceva particolarmente, di uno scultore di una certa fama -ne sono certo- ma di cui non ricordo il nome. Dico avrebbe perché in realtà la chiesa era chiusa, le ante saldamente distese di fronte a noi. “Ma le chiese chiudono, sì?” mi domandò V. “Pensavo si potesse pregare a tutte le ore del giorno” risposi alzando le spalle. Rinunciammo, e sempre sulla stessa via, larga e trafficata, ci fiondammo in un bar per prendere un caffè. V ordinò anche una fetta di crumble al cioccolato. In quell’occasione, sistemati su un tavolo alto e di legno spesso, quasi fosse da lavoro, parlammo di football americano. V si era fatta appassionare dall’encefalopatia traumatica cronica e dalla storia della sua scoperta, in cui c’entrava per l’appunto il football americano. So che l’argomento non è tra i più battuti in ambito baresco e pubesco, ma fu un’altra di quelle occasioni che mi lasciarono piacevolmente mezzo intontito dalla donna che avevo davanti.
L’ultima volta che l’ho incontrata risale a pochi giorni fa. Tornavo a casa dal centro e l’ho vista seduta su una panchina di una gelateria poco distante dalla stazione dei treni. Ci siamo salutati, ci siamo detti come va, come non va, come mai era tornata. Ad un certo punto si è macchiata il vestito, uno di quei vestiti di cotone che mi piacciono, con il gelato. Le macchie avevano formato una costellazione di medie dimensioni, e V si è messa a cercare una soluzione per pulirsi. Io stavo raccontando delle ultime novità della mia vita e mi sono interrotto, per cercare di capire come potessi dare una mano. In un primo momento mi sentii inutile, un cerchiello nella testa di un pelato. Non sapevo cosa fare, come aiutarla. Poi mi è venuto in mente di recuperare delle salviette all’interno della gelateria e di passargliele. V è sembrata grata della cosa, e io finalmente ho dimostrato, seppur non a parole, una minima dose di intelligenza.
Non so quando ancora rincontrerò V, e non so quanto durerà il nostro rapporto; se va avanti così potrebbe benissimo essere già finito come durare tutta la vita. In generale però, dato che sono uno scrittore che inspira ed espira storie, mi piace pensare ad una scena finale. Mi piace pensare che un giorno, da anziani o quasi, io con i capelli più radi ma la barba sempre sul lungo, la incontro in un autobus, o in una panchina, o in un bar o alle poste, se ancora esisteranno. E ci saluteremo, e ci chiederemo come va e cominceremo a parlare di qualcosa e poi di altro e di altro ancora, e lei tra un argomento e l’altro, vagherà con gli occhi, distratta e insieme concentrata. E allora io le chiederò: “…Ma a cosa pensi?”. Lei sorriderà, e dirà: “Ah, niente…A qualcosa di interessante da dirti.”