
Questa storiella sarà breve, un piccolo aneddoto da leggere tra un lavoro e un altro, perché se a noi veneti piace leggere, ci piace farlo tra un lavoro e un altro. Ci piace fare qualsiasi cosa tra un lavoro e un altro. Il lavoro è il protagonista indiscusso delle nostre giornate. Infatti mio padre, nonostante fosse domenica, stava lavorando.
Mattina soleggiata, siamo scesi dalla macchina io e mio fratello. Avevamo parcheggiato nella piazza del paese, un grande manto grigio porfido, che dà davanti a casa dei miei. Abbiamo attraversato la piccola via che separa la piazza dal cancello di casa, e abbiamo visto nostro padre piegato sotto la siepe, la maglia madida di sudore, a strappare le erbacce che crescono sul terreno al di fuori della proprietà dei miei genitori. “Papà, perché lo fai?” ho chiesto io. Mio fratello: “Se ne deve occupare il Comune, non tu!”. Mio padre, da sotto la siepe come un astronauta dalla navicella: “Eh, il Comune, il Comune…”. Una risposta esauriente e allo stesso tempo dai mille interrogativi, come sa dare solo un veneto vero. Io e mio fratello siamo saliti, abbiamo salutato mamma e sorella; ci siamo sistemati, abbiamo preso a mangiare un mezzo panino e a bere una mezza birra in attesa del pranzo, e, in quel frangente, tra un boccone e l’altro, abbiamo ascoltato -senza volerlo, data la finestra spalancata a far passare mezzo filo d’aria tra la fitta calura estiva- quello che succedeva da basso, dove stava lavorando mio padre. “Non vengono a tagliare, ah!” ha detto una voce dalle sembianze venetosteresche, e mio padre, con la voce simile ma meno burbera, ha risposto: “Non vengono, no!”. “Ah, che robe!…Arrivederci, buon lavoro!” “Arrivederci, arrivederci!”. Io e mio fratello abbiamo finito la mezza birra e ce ne siamo aperti un’altra. Un’altra voce, sempre lo stesso timbro da caverna con spina, “…Se si aspetta il Comune si fa notte!”. “Notte profonda, quasi mattina!” ha risposto sagace mio padre. “Arrivederci, e buon lavoro!” “Arrivederci, arrivederci!”. Quando mi sono affacciato alla finestra per chiamare mio padre -il pranzo, lasagne cucinate da mia madre, era pronto- lui stava chiacchierando, sempre piegato e operante, con un altro tizio che era passato di lì. “Se non ce la sbrighiamo noi…” “Non si va avanti, no!”. Il tizio ha sussurrato una bestemmia, poi: “Arrivederci, e buon lavoro!” “Arrivederci, arrivederci!”.
Qualche settimana dopo mi sono ritrovato con delle cartacce, avanzi di cartoni di pizza e di volantini pubblicitari, agli angoli del cancello del mio appartamento, probabilmente un temporale li aveva come trasportati e raccolti in quel punto. Dopo due giorni in cui stazionavano ancora felici e indisturbati, mi sono preso la briga di accartocciarli e metterli nel mio bidone della carta. Sulla via per arrivare al bidone ho incontrato un mio vicino, ci siamo fatti un cenno di saluto. Non ci eravamo mai parlati fino a quel momento. Lui ha detto: “Stavo per raccoglierli io. Grazie, sai.” “Figurati.” “Qua se non si arrangiamo noi…” “…Non si va mica avanti!” ho concluso.