RESOCONTO SULLE LETTURE

Il primo giorno di ferie è più dell’inizio di qualcosa, la sensazione simile ai primi giorni di gennaio o allo sbocciare del sole primaverile. Una sorta di stacco dal periodo passato, in allontanamento come una nave che affonda nel mare della memoria. Questa volta, prima che svanisse con eccessiva velocità negli abissi più profondi, la parte della mia mente dedita a fissare punti dal vago sentore di significati ha organizzato un resoconto dei punti salienti dalle ferie precedenti, prese inevitabilmente -dato lo stesso lavoro con le stesse tempistiche- nello stesso periodo dell’anno. Guidato dall’evidenza che di eventi significativi nella mia vita ne sono accaduti davvero pochi, ha iniziato a scartabellare e risistemare i libri letti, rendicontando e assegnandone i rapporti emotivi.

Prima di iniziare, vorrei avvertire che è una lista piuttosto casuale, per nulla accurata, e ancor meno completa, perché credo, nel fondo del mio cuore e da qualche parte sempre della mia caotica ma decisa mente, che ciò che rimane non serve appuntarlo o ristudiarlo, perché -appunto come da significato- rimane. Nonostante tutto e senza troppi sforzi.

A quest’ora, nel 2021, ero a Dublino, la prima vacanza, il primo aereo, il primo tentativo di normalità turistica dopo la pandemia Covid. Avevo portato con me, per essere in pendant il più possibile, Gente di Dublino di Joyce. È rimasto nascosto nello scomparto dello zaino senza mai vedere la luce della sua terra natia. L’idea era di alternare qualche racconto al romanzo che avevo iniziato poco prima di partire, Nemici di I.B. Singer. Ma, in qualche modo preso non tanto dalla storia quanto dalla scrittura di Singer, sono rimasto ancorato, sulle panchine dello St. Stephen Green o su quelle sulla riva del Liffey, sulle sedie della biblioteca pubblica o sul letto del bed & breakfast, alle avventure metropolitane di un ebreo diviso tra due donne; vessato da un editore, dalla sua religione e dai sensi di colpa per essere sopravvissuto alla Shoah. I pensieri del protagonista Herman Broder, come anche i suoi movimenti, passi insicuri in una New York ricca e povera insieme, emanano un dramma sussurrato. I ricordi rendono la sua stessa vita un rimasuglio immeritato, quasi un peccato da espiare con la morte. Niente di allegro, non so se mi spiego. Mi sono ritornate in mente immagini, flash di dannazione autoinflitta, in mezzo ad una nevicata in riva all’Hudson o in un villaggio fuori città dove avrebbe dovuto aver luogo una scappatella di Herman con l’amante.

Un altro libro, connesso a questo sentimento di dannazione senza speranza di redenzione, è Il vento selvaggio che passa di Richard Yates. Lui è lo scrittore di Revolutionary Road e, se avete visto il film, avete più o meno idea dei temi dello scrittore: il sogno americano tradito, la prigione del matrimonio, le bugie della società borghese. Il vento selvaggio che passa affronta tutto questo dal punto di vista di un marito e una moglie, prima come coppia, come genitori di una bambina e come sognatori vanitosi dalle velleità artistiche-letterarie. Poi come singoli individui, abbattuti dalla separazione, dai fallimenti e dall’alcool. Anche se la dannazione e la miseria umana non sconfinano mai oltre il salotto ben arredato di casa, la capacità di dipingere la frustrazione benestante di Yates -l’immagine sporca di sé stessi fastidiosamente ammirabile in altri contesti- creano una dipendenza ossessiva, che dal canto mio cerco di soddisfare, saltuariamente e senza fretta, con le raccolte dei suoi racconti, Bugiardi e Innamorati, Undici solitudini e Proprietà privata.

Tra le raccolte di racconti letti tra l’anno scorso e quest’anno, sempre seguendo i miei personali picchi di entusiasmo e distrazione, nomino il volume Racconti di New York di Maeve Brennan. Lei è quella che definirei una dritta: scrittrice per il New Yorker e curatrice della rubrica da me copiata -con decisamente meno successo- “Talks of the town”, ha ispirato il personaggio di Colazione da Tiffany di Truman Capote. Ha vissuto una vita triste, segnata dall’alcool e dalla depressione, ma questo ha poco a che vedere con il suo talento. I suoi racconti sono raffinati e taglienti, ricordando la sagacia irriverente di Dorothy Parker. In questo volume, oltre ai racconti lunghi, ci sono alcuni articoli estratti da “Talks of the town”, che potrebbero essere paragonati a dei respiri della New York anni ’60: cenere di vita passata che torna ad ardere in scintille di quotidianità.

Nell’ultimo periodo ho avuto bisogno di rivivere l’allegria -o perlomeno la leggerezza- della mia idea personale di letteratura, e quindi di realtà, di mondo, di persone, allora ho preso in mano un romanzo di uno dei miei scrittori preferiti, Michael Chabon. Anch’esso ebreo, ha scritto il bellissimo Le avventure di Kavalier & Clay, una storia d’amicizia, di fumetti, di fuga e -ma cosa lo dico a fare? D’amore. Non avevo l’aspettativa di apprezzare allo stesso modo -un modo tendente al favoloso, fantastico, fenomenale- questa seconda lettura, Wonder Boys. Tra le recensioni avevo notato un certo scontento nel procedere degli avvenimenti: una trama che, secondo i lettori, si avvita in troppi punti. Devo dire che concordo, ma, devo anche aggiungere, che gli avvitamenti mi hanno divertito, e che, alla fine, la storia, seppur strampalata, seppur concentrata in un unico fine settimana (sono 360 pagine), seppur il protagonista Grady sia un coglione eccezionale, beh, mi ha coinvolto con un certo grado di sorpresa. Forse perché in fondo voglio bene ai coglioni più di quanto voglia ammettere, forse perché mi ci sento vicino. Quasi rispecchiato.

Stanco di tutti questi yankee dalla parlantina silenziosa facile, ho pensato: perché non leggere un italiano? Ho sfogliato qualche proposta della mia libreria. Camere separate di Tondelli promette bene, ma non avevo voglia di un romanzo scritto al presente, con le dinamiche prosaiche dell’immediatezza. L’amica geniale vol. I poteva andare ma avevo voglia di stare più al nord come ambientazione, una voglia che spesso diventa una vocazione e un’ispirazione. Mi è capitato tra le mani Sylvia di Leonard Michaels, la triste storia d’amore tra lui, all’epoca aspirante scrittore un po’ impacciato e ozioso, e lei, Sylvia, una ragazza dal carattere lunatico e con tendenze maniaco-depressive. New York, anni ’60…Ancora? Ancora americani? Sono solo 130 pagine, mi sono detto, e poi sono capitato su un passo che così recita:

“C’era sempre una folla di cappelli e cappotti, uomini che si accalcavano al bancone del bar dove altri uomini tagliavano a metà le arance, forzandole sul cono girevole di uno spremiagrumi. Si muovevano con grazia e rapidità. Il vapore che aleggiava sul bancone portava buoni odori -caffè caldo, fumo di sigarette, brioche e ciambelle. Mescolato alla folla di uomini silenziosi, mi chinavo sul mio succo d’arancia, dal gusto vivace quanto il colore, stando attento a non versarlo; oppure sorseggiavo caffè nero bollente, la tazza in una mano, la sigaretta nell’altra. Un’oppressione ansiosa era stampata sulla maggior parte dei volti. Loro vivevano così da anni. Per me, caricato a caffeina e nicotina, era tutto nuovo e reale, il trambusto e la calca della vita metropolitana, il suo sapore tipicamente newyorkese, quel luogo di uomini. Comodamente infilato nelle mie goffe galosce, la prima sigaretta del giorno tra le dita, mi univo alla confraternita dei lavoratori. Ero felice.”

Ecco, magari a voi serve altro per convincervi. A me, no.

Ora sono su un treno diretto a Parigi, il suono delle rotaie è un sussulto di sicurezza, e sui sedili a destra una coppia di anziani parla in tedesco, lei ha una guida aperta più o meno ai tre quarti dello spessore e lui ha un cappello estivo di quelli con il frontino talmente usato che è come se il sole l’avesse avvizzito, avesse corrotto la rigidità di fattura. Fuori ci sono colori dalla varia natura che, grazie allo stesso sole, si espandono sui campi coltivati e sui saltuari arbusti. Tra le mani ho Smile di Roddy Doyle. Lui irlandese, la mia voglia di nord ancora fissa sulle storie da scoprire. Nel trolley ho messo Racconti parigini, una raccolta di scritti vari sulla capitale francese. Magari qualcosa leggo, questa volta. O magari no.

Dipende da Doyle.