
Aprì la porta, il cigolio del legno, l’odore pesante della pioggia. Ernesto sfregò gli scarponcini sul tappetino; si mosse come una scossa per esprimere un certo disappunto verso l’umidità e si diresse al banco. Aveva il cappotto beige e parte dei capelli ricci, che in quel momento sembravano lisci, bagnati. Accomodatosi alla seggiola senza schienale, poggiò subito il gomito e il giornale, un residuo di inchiostro sciolto che gli aveva fornito l’unico riparo possibile. Il viso era grigio come la luce della giornata. Quando apparve dalla porta sul retro il barista Enrico si salutarono con un cenno della testa. Un gesto intimo e insieme distratto. “Ho saputo, mi dispiace”. Ernesto mollò un sorriso di ringraziamento. “Mi fai…un amaro, sì. Che ore sono?”. Gli occhi si concentrarono sul vecchio tondo di legno appeso sopra il varco del retro, su cui erano elegantemente incise in un corsivo nero le ore. Ernesto e Enrico si guardarono: non era ancora il tempo adatto per un amaro. “Un’eccezione ogni tanto la si può fare. Visto il momento”. Il barista aveva già preso il bicchiere dalla forma larga, come tranciato in altezza, e vagava di fronte alle bottiglie dalle etichette colorate di motti e richiami alla natura delle radici e delle erbe. “Vai con una Sambuca”. Una cosa forte, pensò Ernesto, passandosi una mano ancora umida sul viso, strofinandola tra gli occhi e le labbra e poi su, fino alla fronte, sperando di svegliarsi da quel brutto sogno.
Lo stomaco prese ad infuocarsi, il corpo a calmarsi, e dalla porta entrò il suo compagno di bevute, uno dei suoi migliori amici da ormai cinque anni, il robusto e pelato come una biglia Martino. Posò l’utilissimo ombrello sul cestino sbronzato, un modello di cestino che poteva essere scambiato per un porta ombrelli…e con molte probabilità era in realtà un porta ombrelli. Il locale era vuoto anche nei lunghi tavoli del fondo, se si escludeva una coppia di adolescenti persi nel loro amore e in due tazze fumanti di thè. L’unico rumore era quello della pioggia, che aveva preso a battere più forte, lo si poteva intuire dai getti d’acqua sulle vetrate smerigliate che sembravano atti di sgarbo allo stesso bar. “Erni, ho sentito. Quanto mi addolora, non lo sai”. Si avvicinò all’amico, si sedette sulla seggiola a fianco, un braccio lo cinse come una madre cinge i dolori di un figlio. “Non…cosa vuoi che dica”. Erni teneva lo sguardo fisso sul sottobicchiere, un oggetto dall’utilità piuttosto discutibile, esattamente come si sentiva lui in quel momento. Il sottobicchiere era poi di quel verdino consumato, un’apparenza poco invitante: …ed ecco un’altra fatale somiglianza, pensò.
Martino diede un’occhiata di saluto e d’intesa, riuscendo anche a far capire ad Enrico che voleva bere una cosa assieme alla tristezza dell’amico. Stesso bicchiere, liquore diverso: Enrico sapeva che Martino beveva solo il suo intruglio casalingo alle erbe. Il barista si servì, l’occasione richiedeva il massimo della compagnia. Si accese pure una sigaretta, in barba alle regole: ci voleva una rispettosa concentrazione. Erni diede un sorso deciso alla sua Sambuca, scostò il bicchiere vuoto in avanti, tenendolo in mano. Un altro po’ di veleno. “Cosa pensi di fare adesso?”. “Non ne ho idea. Ci sto pensando ma…è tutto difficile”. I due amici annuirono: quanto lo capivano! Bevvero insieme un sorso. “E cosa pensi di dire a…insomma. Hai capito”. “Non…non ne ho idea”. Enrico poggiò una mano sulla spalla del suo fedele cliente; gli occhi azzurri ghiaccio presero la forma dolce della comprensione. Sull’altra spalla, una pacca che risuonò come la prova empirica dell’affetto. Martino non lo avrebbe lasciato solo, mai e poi mai. Ordinò un altro intruglio alle erbe. “Una sigaretta?”. Il pacchetto galleggiava davanti a loro con la foto abbastanza ridicola di un polmone maciullato dal vizio. Avevano smesso entrambi; si guardarono. C’erano occasioni particolari, si dissero in silenzio. Sfilarono due sigarette, Ernesto sbatté la sigaretta dalla parte del filtro sul banco di legno, un’abitudine all’interno del vizio mai dimenticato. L’accendino fece il giro. Ora i rivoli di fumo formavano una chiazza di fumo sostanziosa. “La cosa è stata totalmente inaspettata”. “Ed è questo che fa male. Se mi avessero preparato…”. Ernesto poggiò il pollice all’altezza della tempia destra, come massaggiandosela. La sigaretta, tenuta tra l’indice e l’anulare della stessa mano impuzzolentiva il cespuglio di capelli, tornato quasi completamente alla sua trama riccia. “La vita non ti prepara mai. Mai”. Alzarono i bicchieri in onore della saggezza di Enrico. Il barista riempì di nuovo i bicchieri per ricambiare l’omaggio. “Questo lo offro io”. Ernesto espirò profondamente. Fuori la pioggia stava lanciando gli ultimi sussulti di sopravvivenza. La coppia di adolescenti pagò e salutò. “La loro vita, mi manca” disse Martino quando i due erano ormai sulla strada. Ernesto fece un ultimo tiro dal mozzicone, poi si allungò e lo stropicciò sul posacenere di Enrico. Butto fuori il fumo dalle labbra come lo stantuffo di una locomotiva, disse: “Ah se non hai ragione…hai un torto con cui vado molto d’accordo, caro mio”. Enrico accese le luci ocra delle graziose lampade appese con rigore a mezza altezza delle pareti. “Posso un’altra?”. Ernesto indicò il pacchetto di sigarette. Enrico gesticolò allargando le braccia, facendo intendere che, per quella serata, ciò che era suo era anche loro. Un altro giro di amari. “Non voglio neanche immaginare cosa devo fare domani per…Ma guarda che situazione”. “Se posso dire una cazzata ovvia, e la dico. Non aspetterò il vostro permesso”. Annuirono all’unisono. “E’ che…beh, non vorrei maai e pooi maai trovaarmi nella tuuuua situazione”. Martino aveva preso a biascicare, ma questo non lo notò nessuno, perché era il linguaggio ufficiale che stava assumendo la conversazione. “Oooh, quanto sono d’accooordo. Tantoo, sì”. Brindarono alla franchezza di Martino, che, dopo aver mollato il mozzicone, pescò un’altra sigaretta.
Uscirono dalla porta del locale per la prima volta ad un orario che si sarebbe potuto definire dopo cena. La strada era ancora viva, le macchine sfrecciavano verso il semaforo e qualche gruppo di ragazzi scherzava, indirizzandosi con una camminata a gambe larghe e cadenzate verso il centro. Si sedettero su dei piccoli sgabelli, attaccati all’insegna del locale I venerdì da Enrico. Avevano ancora il bicchiere in mano, quasi pieno secondo una valutazione scientifica, quasi vuoto secondo la nebbia della loro condizione. “Ah, che fatica stare in piedi”. Il pacchetto passò di mano in mano, così come l’accendino: avevano perso il conto delle sigarette. Ernesto alzò gli occhi dopo essersi goduto il primo e profondo tiro, ancora mischiato al bruciore dell’amaro tra le guance, e guardò il cielo stellato, limpido dopo la giornata oscurata dalle sue nuvole e dal suo dramma. Tirava un’aria fresca che gli pizzicava i muscoli del viso. “Sapete cosa?”. Martino e Enrico lo fissarono. “Quasi non mi ricordo un cazzo di quello che è successo oggi”. Brindarono allora alla scarsa memoria di Erni.