
RICORDO DI UN PRIMO AMORE
Il liceo scientifico Leonardo Da Vinci aveva la struttura di una piramide futuristica, il cemento armato a tenere lontano gli amanti della fantasia, il grigio come un manto a chiedersi se era una prigione o una scuola. Tra i corridoi sfasati simili al percorso di Prince of Persia, in una classe dal soffitto basso e il pavimento gommato, conobbi, due o tre banchi davanti al mio, l’amore.
Lei aveva un fare da massima esperta in quisquilie adolescenziali, la voce ricordava una diva felice e il corpo era, per un giovane sotto tempesta testosteronica come il sottoscritto, da eiaculazione non precoce ma immediata. Partì tutto con un’amicizia, una sintonia basata sul comune accordo che in classe era meglio spalleggiarsi. Il primo a cambiare visione fui ovviamente io; ad un incontro casuale durante una serata estiva, sulle gradinate affollate di passi e direzioni del Duomo, la salutai e la osservai con un’attenzione nuova -aveva gli occhi così magicamente brillanti e il sorriso così realmente spontaneo, che il mio cuore cambiò il ritmo del suo battito, dalla sana maratona dei giorni che si susseguono passò ad un inaspettato sprint. Lo sprint continuò ad apparire in classe, nelle uscite tra amici e tra i miei sogni, sempre di fronte a lei, come se avesse permesso di controllo su tutte le mie funzioni anatomiche. Un giorno invernale dello stesso anno, alla lunga fermata degli autobus appena fuori dalla stazione, ci salutammo con un bacio sulla guancia. Lei restò a guardarmi per un secondo in più, sempre con quei suoi occhi e quel suo sorriso. C’erano nell’aria clacson e macchine a sfrecciare via e rumori di fretta e lamentele, ma non sentivo niente, ero concentrato nelle mie farfalle, che avevano rotto le pareti dello stomaco e svolazzavano dalla testa ai piedi. Lei salì sull’autobus con un’espressione strana in viso, e, qualche ora dopo, rincasato anch’io, ricevetti un suo messaggio. C’era scritto qualcosa riguardo la voglia di baciarmi, sulle labbra, un bacio vero: l’entusiasmo mi fece saltare dal letto e parlare e sorridere tutta la sera a tavola con i miei e i miei fratelli.
Il primo bacio ebbe luogo in un momento e un’ambientazione privata, ma vi dirò che fu caldo, passionale ed energico da parte sua, e timido, impacciato e –immagino- piuttosto statico da parte mia. Quando si aprì la primavera noi cavalcavamo insieme per le vie della città -dalla riviera di Santa Margherita a Borgo Cavour- in preda ai nostri sentimenti. Stazionavamo fuori dai locali, dal Santo, dall’Ugly Man, da Le Vip e dal Soffioni, a baciarci e sorridere, a sorridere e baciarci. Era come se baciarla fosse diventato il mio compito, come se il mio unico scopo della giornata fosse riempirla di baci: infatti più ne davo, più i miei voti a scuola colavano a picco. Ma chi se importava della scuola? Futuro? Lavoro? La mia vita era bella adesso, e nessun otto in storia valeva il contatto con le sue labbra, nessun dieci in matematica valeva stare steso nudo con lei a scoprire come funzionavano certe questioni studiate solo su audiovisivi segretati. Oh, mi dissi un giorno, mentre mia madre urlava per l’ennesimo incontro andato male con i professori, che duri per sempre questo momento! Che duri per sempre questa vita!
Imparai presto che i desideri corrono lungo una corda sottile e tesa, facile da spezzare, difficile da seguire. Lei, agognata anche dai più grandi, dai maschioni ben torniti di quinta superiore, decise di lasciarmi per uno di loro. “E’ un’idiota completo!” le assicurai io, senza aver mai avuto il piacere di conoscerlo. Lei piangeva perché le dispiaceva lasciarmi, e perché conosceva meglio di me l’idiozia dell’altro, e intanto mi baciava ancora, e io non capivo più niente di cosa stesse succedendo. Eravamo seduti sulle panchine lungo il Cagnan dove una striscia verde con qualche alberello specchiava la sua carineria sui palazzi arroccati e nobili dall’altra parte del letto del fiume. A pochi passi da noi, sul Ponte di San Francesco, qualche proprietario portava a passeggio il cane. “E’ finita!”, e mi baciava, “Ma com’è possibile?” e la baciavo, “Finiscila!” e mi baciava, “Va bene!” e la baciavo. Cominciai a piangere anch’io, per essere in due e non lasciarla sola nell’attività.
“Facciamo una passeggiata?” mi chiese lei, tra un sob e l’altro. Annuii e, stringendola forte, la baciai ancora e ancora: sentii, in quella richiesta di cambio location, un ticchettare di fine imminente. Avevo il cuore gonfio d’aria come se la stesse fregando ai polmoni. Salimmo lungo il ghiaino delle mura, davanti a noi il parco con i platani scuri e le altalene dove schiamazzavano i soliti bambini, le macchine a correre come se niente fosse lungo la circonvallazione esterna. Era così che il mondo reagiva all’apocalisse? Ci sedemmo su una panchina e, quando provai a baciarla, mi disse “Basta”. Guardava lontano, lei, oltre il vecchio cornicione macchiato di licheni. Io cominciai a piangere forte, nell’adatto ruolo di un adolescente innamorato, e le dissi “Ti amo, ti amo, ti amo…” e provai ancora a baciarla, ma lei, ferma, lo sguardo ancora distante, un sospiro, disse di nuovo “Basta”.
Ci separammo; lei restò ferma sulla panchina a immaginare i suoi nuovi orizzonti, io ridiscesi verso Piazzale Burchiellati, e uscii dal centro, imboccando Via Montello, una strada tutta a curve fiancheggiate da negozi a forma di villaggio. Di stare in città non ne avevo più nessuna voglia, non sapevo dove andare, non sapevo in quale angolo rasserenarmi.
Ogni luogo era mio nemico, perché, racchiuso in quelle mura, ogni luogo apparteneva ormai a noi.