ESERCIZI DI STILE, UN VIAGGIO IN TRENO

Si era svegliato presto, appesantito dallo scuro del cielo, gli occhi gonfi e la mente pizzicata dal debito di sonno. Si preparò con velocità e precisione, d’altronde aveva organizzato i bagagli e studiato le mosse dalla doccia al terminal della stazione con la stessa dovizia di un manager di McDonald’s. Il percorso a Roberto sembrò una processione, ad ogni passo espiava i suoi peccati, il trolley legato come un peso imprescindibile alla sua mano di prigioniero del viaggio di lavoro. Una volta sul vagone, lo slegò dalle proprie pene, gettandolo con cautela nello scomparto superiore, dopo aver sfilato, con le attenzioni di un chirurgo ortopedico, il pc aziendale. Il sedile sembrò il premio delle sue sofferenze, ogni lembo della schiena si appoggiò lentamente regalandogli una piacevole goduria da assuefazione. Roberto chiuse un attimo gli occhi e sospirò, mise una spunta verde al primo impegno in lista della giornata. Si sbottonò la giacca blu navy e lasciò vagare lo sguardo sugli altri passeggeri, piccoli misteri sparsi di cui si sarebbe dimenticato una volta sciolti i ranghi da binario. Quando il treno si mosse, il cuore ebbe un moto di gioia, di distensione, di serenità: il posto al suo fianco era ancora vuoto, e lui poteva invadere lo spazio offertogli con la natura maleducata delle ginocchia. Perlomeno fino alla fermata successiva, Torino. Tra un’ora e mezza: un’ora e mezza che suonava come aria di montagna per i polmoni.

Oltre il finestrino, il cielo aveva preso le sembianze di un grigio sbiadito che si distribuiva come polvere sulle case dei paesini e sui campi di passaggio. Roberto si perdeva spesso ad osservarlo, quel grigiore, per distaccarsi il più possibile dall’altro grigiore che apparteneva ai toni delle e-mail scambiate con i vari dirigenti di un fondo, con cui l’azienda stava chiudendo un accordo sull’utilizzo goliardico degli spazi prestigiosi della sede centrale. I sospiri di Roberto furono la colonna sonora fino all’arrivo a Torino. Ci fu un mormorio di movimenti, e di facce e di passi, fino a che il mormorio divenne un’unica grande onda scura di movimento che si palesò alla sua sinistra. Per un istante in cui il dubbio regnò sulle sue impressioni, la penombra nascose i connotati, ma con un movimento accennato, uno scatto del capo in avanti, lei lasciò ammirare le sue labbra ben delineate, gli zigomi marcati, gli occhi profondi e leggeri, come se sapessero giocare con la dovuta serietà. Roberto sentì un peso in gola, l’imbarazzo gli provocava questo istantaneo effetto collaterale. “Posso?” chiese lei, indicando con l’indice il posto vicino al finestrino. Lui, in un’alternanza lontana dallo scattante, guardò il dito e il posto. “Certo, certo” disse quando il peso in gola svanì, e allora si alzò con un sorriso da cerimonia dell’idiozia, si sfilò e lasciò che lei, indaffarata dal bagaglio, una borsa di pelle beige e una valigia dalle misure precise per rientrare nella definizione di a mano, sistemasse le sue fatiche e il suo corpo. E Roberto al corpo diede anche una sbirciata, un esame che la diffidenza potrebbe giudicare poco accurato. Ma l’esperienza quando si fa guida non ha rivali, vince anche sul tempo. I jeans le premevano sul sedere, poi si gettavano lungo le gambe come una cascata, morbidi per tutta la lunghezza degli arti. Il maglioncino beige suggeriva un’abbondanza ai fianchi che veniva aspirata dal torace stretto, le spalle larghe, i capelli castani come fili di madreperla. Roberto sospirò e si chiese tra sé e sé: “Adesso chi lavora?”.

La danza goffa del treno riprese. Lei picchiettava sul suo computer con decisione e perseveranza, le mani una strana forma e attitudine da ragno, un ragno liscio e rosa e con le dita affusolate sul cui anulare destro spiccava un anello dalla doppia voluta, al centro uno spicchio di petalo bianco. Roberto spostò lo sguardo -i suoi occhi in crisi d’astinenza dalla bellezza che emanava lei- sullo schermo del suo pc, dove apparivano i tratti criptici e saggi di una tesi di laurea o di dottorato sul periodo rivoluzionario cubano. Leggeva …e si nota che più della metà degli abitanti delle zone rurali non aveva a disposizione alcun tipo di servizio igienico, neanche latrine… e poi sbirciava il viso di lei, illuminato dalla luce dello schermo, immobile in un raptus di concentrazione, ogni tanto la mano, a garantire una pausa dal ticchettio, che si appoggiava sulle labbra e le stuprava con convinzione, quando il testo non soddisfaceva l’esigenza che imponeva a sé stessa, e allora il ticchettio da ragno riprendeva. Le e-mail di Roberto erano ferme, avanzavano di un paio di parole ogni dieci minuti. Quando lei sbirciava lui, quando capitava che controllasse il mondo attorno per essere sicura di trovarlo come lo aveva lasciato, Roberto fingeva, con il cipiglio contrito da professore, di essere bloccato ad un passo ostico della missiva digitale. Ah, si disse, come mi piacerebbe rompere il ghiaccio. L’anello -glielo aveva spiegato anni orsono un vecchio conoscente dell’università al quale credeva con la stessa devota ignoranza destinata ai profeti religiosi- suggeriva un fidanzato di lungo rodaggio, una storia destinata alle gioie e ai dolori delle abitudini quotidiane, della conoscenza che aveva privato dalle singole sorprese e garantito quelle esclusivamente condivise. Poteva essere la sua nuova sorpresa? La sua individuale, segreta, tenace e sottile, scoperta? Roberto espirò fuori l’aria come per prendere coscienza di una risposta finale. Lei sbirciò il cellulare senza lasciare che il viso disperdesse indizi. Tornò a scrivere. Roberto strinse le labbra e le mosse prima a sinistra poi a destra, poi le riportò a sinistra. Con il dito indice e il pollice si levò dei pelucchi posati sul bavero della giacca. Fuori c’erano rocce bianche ed erbacce. Un bambino, qualche posto più in là, piangeva e urlava “Dai, per favore!” a sua madre. Poteva forse fare lo stesso con lei? Piangere e urlare per favoreeeeee!

Le rotelle metalliche, il loro stridio sulla moquette blu del corridoio, anticiparono gli inviti educati dell’addetta alla vendita di cibo e bevande che avanzava con il carretto, cercando di non farlo sbandare contro i sedili foderati, cercando di mantenere la retta tremolante diretta verso l’infinito e non oltre la destinazione d’arrivo. “Caffè? Patatine? Una merenda dolce?”. L’inserviente sorrise a Roberto con una timidezza istintiva, come se non volesse davvero vendere niente, e, sia per la nuova tecnica di vendita che assomigliava più ad un’anti-tecnica -un approccio originale che l’aspetto di Roberto sopito dagli anni di lavoro in ufficio premiava con un assenso accennato delle labbra- sia per i morsi della fame che avevano cominciato a ringhiare, chiese un pacchetto di patatine e una bottiglia d’acqua naturale. Una volta disposti sul piano mobile gli acquisti, una volta pagato con le monetine che lui aveva tirato fuori dalla tasca scomoda e raggrinzita dalla posizione dei pantaloni, lei schiuse ed emise la vigilia di una richiesta; alla sinistra di Roberto si alzò un leggero stridulo che si trasformò, qualche percentuale di secondo dopo, in una voce sicura e aggraziata. “Scusi, posso avere un caffè macchiato?”. Roberto, mentre avveniva la compravendita, i cui motivi protagonisti erano la fragranza di caffeina solubile e i bip della macchinetta per i pagamenti elettronici, si schiacciò su di sé per non essere d’impiccio. Con uno svolazzare degli occhi incrociò quelli di lei, e gli venne da dire “Scusa!” sorridendo, indicando poi, con un altro svolazzo energico, la sua posizione d’ostacolo ai suoi desideri di giornata. “Ma figurati” disse lei, e prese il caffè, e riprese la carta di credito, e prese lo scontrino, e sorrise, e si tirò dietro l’orecchio un ciuffo di capelli castano-cenere, e mescolò il latte e il caffè, e fissò il pc mentre compiva con la mano destra dei calmi cerchi concentrici, e al primo sorso il labbro superiore sormontò quello inferiore come per recuperare ogni particella di sapore, e i muscoli del collo ebbero un leggero fremito, e si accigliò in direzione dello schermo, un’altra frase che aveva bisogno di lei per una seconda o terza o quarta correzione. “Scusa!” ripensò Roberto, “Ma figurati”, e ripensò allo spegnersi della sua voce. E come ti chiami? E dove vivi? E cosa fai nella vita? E cosa volevi fare nella vita? E perché non sei riuscita a farlo? E perché sei contenta lo stesso? E perché non sei contenta lo stesso? E cosa fai nel tempo libero? E cosa pensi di ogni piccolo ed inutile aspetto del mondo? E cosa vuoi salvare? E se andassimo da qualche parte per il gusto di scoprire che quella parte in cui stiamo andando perde ogni valenza perché ci stiamo andando insieme? Esagerava, Roberto, con le proiezioni. Magari era una stronza delle peggiori. Sapeva che la possibilità c’era, ma, nel pragmatismo fantastico che lo contraddistingueva, credeva fosse un’opzione bocciata quasi completamente dalla statistica, un po’ come le probabilità di essere colpiti da un fulmine quando si esce di casa con il temporale.

Il panorama prima della fermata era cambiato, si era arricchito di cemento e delle forme geometriche, nette, nuovi tagli dal sapore tutto umano dell’orizzonte. Il treno squassò  e fischiò con virilità, Roberto osservò il cursore sul suo schermo fermo come un chiodo lampeggiante a metà della parola quin quando, come un secondo e più devastante allarme a toccargli direttamente corde filanti che sentiva vorticare da un estremo all’altro del petto, lei chiuse il pc con uno scatto, prese a raggruppare i suoi soprammobili da viaggio -un cellulare, un pacchetto di fazzoletti e una borraccia di metallo con un’immagine dai contorni precisi e dalla forma di difficile definizione, come un’ombra replicata sul terreno dal sole estivo- e chiese a Roberto: “Scusi, non è che…?”, e le gambe già avevano cambiato la loro posizione, si erano mosse verso di lui, le ginocchia lo puntavano ma non lo desideravano, volevano andare oltre, liberarsi e contorcersi verso il corridoio, le porte automatiche, far lavorare il menisco con la dovuta costanza fino all’uscita della stazione precedente a quella a cui lui era destinato. “Certo…”. Si alzò, la lasciò gestire i bagagli, un sorriso ancora, si risedette, un altro sorriso. Perché non resti un altro po’ qui? Perché non ti seguo io? Un cenno, sempre sorridente. Lei è lì, ancora, rimpicciolisce, i jeans, la forma della sua schiena e del suo sedere, i capelli come una tenda sospinta da un venticello di primavera. È ancora lì, è ancora lì. Avrebbe voluto dirle qualcosa, Roberto, una banalità onesta, una di quelle frasi stonate sulla sua voglia assurda di parlarci, e non per trattenerla, lei avrebbe continuato a percorrere le tratte dei suoi impegni trasformando il futuro in presente; ma per rilassarla, o incoraggiarla, o anche solo darle una prova delle possibilità del suo silenzio e della sua presenza. Per riempirle, un minimo, un atomo del suo universo emozionale, il suo cuore. È ancora lì, è ancora lì. La porta automatica si chiuse.

Roberto sedeva nello spazio ampio del salone dedicato ai rinfreschi, stava in compagnia di quel chiacchiericcio, fitto e dal sorriso studiato su appunti ammiccanti, del suo superiore e dei due ospiti. L’eco veniva assorbito in ritardo dalle pareti dove i bassorilievi ricordavano vecchie capacità di prospettiva. I lampadari accesi non solo distribuivano la luce ma se la facevano rimbalzare addosso in un eccesso di vanità. “E’ proprio bello questo posto!” esclamò con la voce profonda, come avesse un microfono incorporato, uno dei due ospiti, il più grasso, quello la cui camicia azzurra amoreggiava con l’addome abbondante. Ci fu un annuire condiscendente, un annuire implacabile e inevitabile. Anche Roberto annuì a guardarsi attorno, a ricordare la bellezza come valore che doveva mettere d’accordo tutti. Fissò il bicchiere in cui mezzo dito di vino era stato versato per il cerimoniale di benvenuto. La bellezza del salone non era in discussione, gli riempiva appena il suo cuore di emozione, ma il suo cuore colmo lo era già, e l’unico bisogno che aveva era di svuotarlo.