
PRIMO PACCHETTO DI FIGURINE
Due amici, Fetti e Josh, mi convinsero a virare verso il basket. Il primo lo conoscevo da quando avevo quattro anni, dalla seconda classe della scuola materna. Aveva praticato l’atletica e la pallavolo, il calcio e il nuoto, senza mai trovare la sua vocazione. Una volta fissatosi sul suo metro e ottanta abbondante, la corporatura non scattante ma massiccia, trovò nel basket -anche grazie al legame che si sarebbe poi instaurato tra noi tre- un ottimo sfogo alle crisi ormonali tipiche dell’adolescenza. Josh aveva avuto un percorso più simile al mio, calcio e basket; mi aveva solo anticipato di un anno nel cambio. Alto un metro e sessanta, mingherlino nella struttura, aveva sfruttato l’unica fessura concessagli dallo sport, ovvero il ruolo di playmaker.
Furono loro ad iniziarmi al rap di Tupac, Notorius B.i.g. e Snoop Dogg (rispettivamente i rapper preferiti di Josh, Fetti e del sottoscritto) e all’Nba.
In squadra non c’erano altri ragazzi con particolari manie sulle rime americane o sulla trasgressione. Insieme a Francesco, il centro titolare, avevo trascorso cinque anni di scuola elementare. Era sempre stato il secchione ma non in senso negativo: studiava abbastanza, ottenendo i massimi risultati. Aveva i capelli ricci e bruni, gli occhi un po’ schiacciati similmente agli asiatici dell’est, si attestava sul metro e novanta scarso. Per lo stile di gioco, abbastanza pulito e poco aggressivo, si sarebbe potuto definire l’Abdul-Jabbar di Ponzano Veneto.
In termini di età, i fuori quota erano Matteo e Paolo. Più piccoli, sapevano il fatto loro. Matteo aveva militato nella Benetton Basket. Era alto quasi due metri ed era fino e sostanzioso; un grattacielo stabile ma, dal punto di vista fisico, non invincibile come una montagna. Sapeva anche tirare, venendo quindi utilizzato come LeBron James: un all around precoce.
Paolo era un toro biondino pronto a gettarsi nella mischia senza curarsi molto dei difensori. Utilizzava i gomiti come i samurai le spade. Peccava sicuramente in eleganza.
L’allenatrice si chiamava Lucia, storica compagna di una dirigente del Ponzano nella nazionale italiana femminile degli anni ’80. Anche lei aveva un corpo taurino, nel viso una mitezza zen definita dagli occhiali fini e i capelli tenuti da una coda ordinata. Le mancava mezzo pollice: nei momenti più difficili del rapporto non mancavamo -perfidi e irrispettosi quando ci giravano- di prenderla in giro di soppiatto. Il vice allenatore era Stefano, il padre di Paolo. Un uomo dalla corporatura di un corridore, il viso da impiegato di banca e una leggera r moscia. Cercava di fare quello che fa un buon vice: supportare tutti e prendersela solo con l’arbitro durante le partite.
10 PUNTI
La prima partita della stagione si giocò in casa del Carità di Villorba. Allenatomi fino a quel momento dentro il tendone di Ponzano, il loro palazzetto risultò ai miei occhi imponente, gli spalti si distendevano con professionalità sulla sinistra, il parquet aveva un bel legno scuro e scricchiolante e i canestri erano ammortizzati dalle molle.
Roba da professionisti.
Era sabato pomeriggio. C’erano pochi tifosi, sia da una parte che dall’altra. C’era mio padre e i fedelissimi del Ponzano, quelli che sarebbero sempre restati e che non avrebbero mai aumentato di tanto la cerchia appassionata del tifo. Io intanto me la stavo facendo sotto; mentre provavo a riscaldarmi con i classici esercizi di passaggi e terzi tempi del pre-partita, le gambe mantenevano la consistenza di due gelatine al limone. Sirene suonavano, l’arbitro fischiava; mancava sempre meno. La squadra si riunì, l’allenatrice il vice-allenatore avevano una voce convinta, ad ogni lettera pronunciata premevano la lingua sul palato. Fecero la lista dei titolari. Mi nominarono per terzo o quarto. Il panico…Titolare? Avevo fatto cinque allenamenti massimo, non ero sicuro di aver capito neanche tutte le regole. Slacciai e riallacciai più volte la fascetta che utilizzavo per non far ricadere i capelli sugli occhi. Mi avvicinai a Josh. Alzandoci dalla panchina per mettere tutte le mani al centro e alzarle all’urlo di 1 2 3 e il coro: Ponzano!, gli chiesi per l’ennesima volta la disposizione dei giocatori sotto canestro durante i tiri liberi. Era una delle tante piccolezze confuse che avevo per la testa. Me lo rispiegò tra un urlo d’incitamento e l’altro.
Mi muovevo seguendo un vago istinto, qualche coordinata imparata nelle settimane precedenti. D’altronde il dai&vai non richiede chissà quale comprensione del meccanismo. Nei rari casi in cui ricevevo palla da libero –per motivi a me ignoti il difensore non era lì- dato che non avevo alcuna intenzione di palleggiare (ero terrorizzato dai passi in partenza), dato che di base ero uno che dava priorità alla finalizzazione piuttosto che ai compagni (ero così anche a calcio), tiravo. Ricordo un’occasione, una specie di contropiede disordinato, dove avrei potuto tranquillamente optare per l’appoggio; invece, appena ricevuta palla, mi arrestai a quattro metri, forse cinque dal canestro, e scoccai un tiro dalla media distanza. Ciof! Feci un totale di dieci punti, e senza sfigurare.
Ricevetti i complimenti dei pochi tifosi. “Che esordio!” disse qualcuno. Io sapevo che la questione riguardava solo un pizzico di capacità e una sorprendente e massiccia dose di fortuna. Ero però giovanissimo, un ragazzino alla ricerca dell’approvazione altrui, ed ero disposto a credere a tutte le bugie che potessi raccontare a me stesso pur di gonfiare il petto di soddisfazione. Ecco la nuova stella del Ponzano Basket! cominciai a pensare.
In ogni caso perdemmo la partita di una quindicina di punti. Maturammo però buone prospettive per la successiva.