
1.
Il museo di Picasso si trovava in una stradina stretta del centro di Barcellona. Romina lo aveva messo tra le tappe obbligatorie della nostra vacanza, anche se io, ad essere sincero, ne avrei fatto volentieri a meno. Ero un giornalista e uno scrittore interessato ai movimenti della città, ai ritmi dettati dalle parole ai tavolini delle birrerie, dalle biciclette e gli skateboard della strada affollata, dall’orizzonte del mare ammirato sulla sabbia scura della spiaggia artificiale. I musei –mi pareva evidente- erano destinati ai turisti e al loro ritmo sempre uguale dappertutto.
“Ma come fai ad essere così…ottuso?”. La macchina fotografica, agganciata al collo, le ballonzolò appena davanti al ventre, la maglietta bianca che aveva indossato quella mattina si abbinava bene alla freschezza della gonna di lino. Gli occhi severi lasciarono scappare uno scintillio di divertimento: il barlume dell’atteggiamento di gioco pizzicato dallo scherno. “Oh, andiamo…” risposi io. Allargai le braccia come un attore teatrale dispiaciuto. Avanzavamo lenti sulla via, i negozietti di cianfrusaglie si lasciavano osservare dalla curiosità dei passanti, le comitive sembravano uniche entità dalla potenza inaudita. “…Guarda che riconosco l’interesse nelle opere!”. “Almeno quello” controbatté Romina. “Non mi convince…come si dice? L’esperienza del museo. Specialmente quando abbiamo una città intera a nostra disposizione e così poco tempo per per…assaporarla”: mica volevo solo visitarla. “Ma non credi che faccia parte del sapore anche questo?”. Eravamo arrivati davanti all’entrata. Le porte di vetro trasparenti, i passi dubbiosi dei visitatori: era come se il movimento continuo del piano terra sorreggesse l’intero palazzo di mattoni, sulla cui destra una scalinata faceva defluire chi da quel piano terra era partito. Romina si avviò senza riuscire a nascondere l’entusiasmo, il terreno sembrava solleticarle le piante dei piedi. Aveva già arpionato la macchina fotografica con la mano destra.
Lei era una fotografa. Aveva vinto un paio di premi nazionali e, dividendosi tra matrimoni, diciottesimi nobiliari e set pubblicitari, cercava di portare avanti le sue aspirazioni, legate ad uno strano amore per tutto ciò che riteneva meraviglioso nel senso profondo del termine. Le sue idee -a differenze delle mie, sempre razionali ed analitiche- partivano dal cuore. Era uno dei motivi per cui mi ero innamorato di lei e -conoscendola, vivendoci insieme- quella sua caratteristica mi aveva trascinato in sentieri inesplorati anche delle mie convinzioni, rocciose solo all’apparenza.
“Di qua” disse con il tono leggermente acutizzato, un sintomo secondario dell’ondata di sollecitudine. In qualche modo e con le dovute resistenze, mi feci coinvolgere. Il museo era strutturato su due piani con sale contigue, senza porte, solo varchi arredati dai numeri d’ordine della visita. Mentre Romina scattava foto ai soggetti nati dalla sua ispirazione -studenti e insegnanti attenti ad un quadro, bozzetti esposti, una ragazza sui sedici anni che osservava meravigliata come una bambina l’opera I Piccioni, dove il panorama del mare e del cielo visto da una finestra ospitava sul cornicione la rappresentazione stilizzata degli uccelli arruffati – io presi a seguire il percorso ascoltando l’audio-guida (il generoso riassunto del sapere e di una professione). Partii dal primo quadro, un ritratto di uomo barbuto realizzato da un Picasso tredicenne (tredicenne!), e poi proseguii curioso di ricercare, prima di tutto, la strada della grandezza; certo di trovare, da bravo segugio delle tribolazioni umane, i punti cardine di una salita verso quell’Olimpo di personalità i cui nomi ci risuonano come divini: Dante, Van Gogh, Mozart e Beethoven, Charlie Chaplin!
Mi divisi tra schizzi e tentativi, esperimenti e ispirazioni da altri artisti come El Greco o scrittori come Balzac. Finii, distratto a tratti da Romina e dai suoi due occhi che sembravano mille, senza una risposta chiara, confuso dalle incertezze dei tratti di alcune opere, dubbioso addirittura della grandezza di Picasso stesso. “Non è stato…tremendamente interessante?”. Cercai di darle corda senza eccessive rimostranze, volevo evitare la centesima discussione sempre uguale sui miei paletti mentali. La missione fallita aveva accertato la poca utilità della visita ai musei, almeno nei miei termini passionali.
Usciti e in attesa di delineare altre destinazioni, cincischiammo qualche minuto tra le vetrine della via. Poi Romina mi chiese dove volevamo andare, e, forse desideroso di ritrovare una forma di altezza più tangibile e immediata, risposi che potevamo dirigerci verso il parco di Montjuic, dove la vista sembrava promettere il rimborso delle fatiche spese per la salita.
Prendemmo la metro, Romina continuò a fotografare ed io a tentare di osservare il mondo attraverso il suo cuore. Quando arrivammo alla base della zona collinare, seguimmo per il castello; a metà percorso evitammo la tentazione di aggrapparci moralmente alla funicolare, convinti di dover contare solo sui nostri piedi. Nessuna scorciatoia per arrivare alla cima; la bellezza è nel percorso; queste cose qui. La città aveva già cominciato a farsi ammirare, il Mediterraneo a bagnarla, i grattacieli a badare ai tetti dei palazzi più bassi come genitori con troppi figli. Una volta in vetta, il castello in primo piano tendente nell’aspetto ad una fortezza, facemmo il giro e ammirammo da uno degli spiazzi l’intera città, che toglieva il fiato e insieme lo ridava. Calma e maestosità: e restammo lì a goderci entrambi. I moti e le turbolenze, l’andirivieni caotico, era un sussurro rispettoso verso il quale, dal nostro trono, tendevamo affascinati le orecchie. Romina non fotografò nulla, si avvinghiò al mio braccio e stemmo così, scambiandoci di tanto in tanto qualche bacio.
2.
La vacanza era durata fin troppo poco, e ancor meno durò lo stato d’animo che aveva forgiato. In men che non si dica -un paio di giorni- eravamo di nuovo assorbiti dai nostri lavori e dalle nostre ambizioni. Ci fu una serata in cui, stranamente, io ero tornato a casa presto dall’ufficio e Romina non aveva dovuto incastrare le mille peripezie utilizzate per garantire il suo orgoglio e la quota dell’affitto. Ci mettemmo sul divano del piccolo soggiorno con due birre, a scartare dalle buste le foto delle vacanze, per tentare di recuperare quella serenità durata un battito di ciglia. Tra un sorso e l’altro, ci confidammo le nostre impressioni. Lei era sfacciata con me e io con lei. Mi piacquero gli scatti in metro, di gente impegnata nelle più comuni attività come leggere e parlare della serata a venire; criticai alcune noiose ambientazioni di piazza Sant Cugat. Arrivammo a quelle nel museo. Assunsi un atteggiamento vigliacco, da critico a priori, fino a che non incontrai la foto della ragazza sedicenne davanti ai Piccioni. Il contesto si poteva solamente intuire dalle pareti sfuocate dove le opere sembravano pretesti, personaggi secondari atti a mettere in risalto la protagonista principale: la ragazza, mora, con un naso largo ma armonioso, risultava in piano medio, stringeva sulla spalla una borsetta di tela. I suoi occhi, l’espressione, rimandavano con una strana precisione, e al tempo stesso con uno strano guazzabuglio intimo, alla concezione del meraviglioso di Romina, una concezione che -lì mi fu chiaro come non mai- aveva affinità con la mia. Il fatto che quella foto fosse stata scattata proprio al museo, proprio nel luogo che avrei saltato a piè pari, mi diede da pensare.
Mi ero forse sbagliato? Magari non esisteva alcuna salita da compiere, ma solo una serie infinita di tentativi affrontabili con un unico sguardo giusto. Parallelo, per così dire; comune e vicino. E se la grandezza – mi domandai- in certi campi come la mia tanto amata scrittura o la fotografia di Romina o la pittura di Picasso, fosse interconnessa al rifiuto di posare lo sguardo sul mondo da una posizione privilegiata, speciale…unica? Se il ritmo da ricercare avesse un legame più stretto con le nostre mille uguaglianze e non con la determinazione delle poche differenze?
“Questa non è male” dissi, tenendo la foto al bordo tra il pollice e l’indice. Forse mi ero sbagliato, certo, ma non volevo darla vinta troppo facile a Romina.