LAVORARE IN UN MULTISALA

LAVORARE IN UN MULTISALA – INTRO

Era un periodo in cui cercavo lavoro disperatamente. Qualsiasi cosa andava bene; bastava che fosse un qualcosa, che mi riempisse la vita di un impegno di cui mi sarei potuto lamentare con orgoglio dopo qualche mese di contratto. Era andato perfino a Milano, pensando che nella grande città le offerte di lavoro si riproducessero floride: annunci, e richieste, e preghiere appese a treni, bacheche, tronchi d’albero! Purtroppo -scoprii- non funzionava così. Fu durante una passeggiata serale, dopo aver passato il pomeriggio a chiedere timidamente alle librerie e ai cinema se fossero interessati ad assumermi, che mi chiamarono.

“Buonasera, parlo con Elpuberamato?”

“Sì, sono io.”

“Sono il direttore del GigaCinema di Treviso. Ha lasciato il curriculum qualche mese fa.”

Lo avevo lasciato quasi un anno prima, quindi ci misi un po’ a far combaciare il presente con il riferimento passato.

“Sì…Mi ricordo, sì.”

“Che ne dice di venire per un colloquio domani?”

“Purtroppo sono a Milano…avrei difficoltà.”

“Non si preoccupi. Mercoledì prossimo ce la fa?”

Ci mettemmo d’accordo, e ripresi a passeggiare con il cuore più leggero: avevo un colloquio di lavoro, e non era per quelle posizioni da venditore dove bisogna appioppare alla gente offerte energetiche incomprensibili anche dopo i corsi di preparazione della stessa azienda di venditori…era un lavoro serio! La grande città -decisi guardando il vialone con i palazzi monolitici in serie- poteva aspettare.

Il colloquio si svolse in un piccolo ufficio in una parte sconosciuta del multisala, tutta corridoi e neon. C’era una moquette blu che dava all’atmosfera quell’odore pieno, quasi sostanzioso, sicuramente polveroso, e sopra la moquette partivano le gambe di una scrivania bianca, scarna, eccezionalmente vuota se non si consideravano i fogli A4 con su stampati foto e dati sensibili di speranzosi candidati. Sopra la scrivania, le facce d’aquila di quelli che si erano presentati come il direttore e il vicedirettore del GigaCinema squadravano le caratteristiche e le carriere -piuttosto vuote come la scrivania- degli stessi candidati. “Quindi lei è Elpuberamato…”. Guardavano il mio curriculum. Io, seduto, tenevo le gambe strette, cercavo di concentrare il nervosismo su un punto nascosto. Annuii, “…Sì, proprio io” dissi. Mi lanciarono un’occhiata. Io continuavo a fissarli, la testa vuota, pronto a riempirla con risposte adatte, brillanti. Pronte. Mi chiesero se sapessi usare un registratore di cassa. La domanda mi colse impreparato. Aggrottai le sopracciglia, scostai la schiena dallo schienale. “Beh, sì, chiaramente…”. “Anche in situazioni, come dire…affollate?”. Anche questa domanda mi incollò addosso una perplessità incerta. “Sì, insomma…ho già lavorato in un cinema…”. Avevo prestato i miei servigi di stagista e collaboratore occasionale in un piccolo cinema del centro cittadino. “Ah…ha già lavorato?” mi chiese il direttore. Aveva il mento affilato e il fisico di un abile venditore, smilzo e teso. La domanda mi fece strizzare gli occhi. “Sì, c’è scritto…”. Mossi il braccio verso il curriculum che teneva in mano il vicedirettore. “…Sulla seconda pagina.”.

“Ah, ma c’è una seconda pagina!”. Il vicedirettore, moro e con la faccia dalla forma di una palla di rugby orizzontale -alla Stewie dei Griffin- girò la prima pagina. Allargò la mano in un moto di gloria e soddisfazione. Anche il direttore allargò le braccia, sorrise al vicedirettore. Io rimasi fermo ma avevo voglia di sospirare in tono giudizioso: mi avevano convocato, mi stavano facendo un colloquio, e non erano neanche riusciti a leggere tutto il curriculum? Ok, due pagine sono eccessive secondo le dritte ufficiali delle risorse umane, ma loro mi avevano richiamato. Ero lì, tra i papabili. “Beh, ma allora non perdiamo tempo! Se ha già lavorato nell’ambito…Può iniziare a metà dicembre, cosa dice? Con il movimento natalizio ci sarà una bella calca e a noi un po’ di aiuto giova per forza!”. Risero. Risi anch’io, non so bene perché. Perché erano i capi, forse? Ci salutammo, strinsi la mano ad ognuno dei due e mi fiondai a casa per dare la bella notizia ai miei. Avrei cominciato come barista.

LAVORARE IN UN MULTISALA – ADDESTRAMENTO

Partii il 14 dicembre, un lunedì. Arrivai poco prima delle 17, il cielo già scuro, le luci di Natale ben posizionate agli angoli e alle colonne e l’albero di Natale sull’atrio centrale risplendeva di un azzurro nascita o iniziazione. Non c’erano molti clienti, né in coda alle biglietterie, né in coda al bar. I dipendenti -i miei futuri colleghi- chiacchieravano poggiando i gomiti dove potevano, avevano tutti la divisa nera con il cappellino in testa dalla forma squadrata e il frontino. Esiste modello di cappellino più brutto? pensai, mentre superavo l’uscio di una porta grigia e mi avviavo alla zona degli uffici.

Mi feci dare la divisa -con cappellino annesso- dal vicedirettore. Lui fece una battuta che non capii, lui rise, io risi, non so perché. Forse perché era il vicecapo? Mi cambiai nello spogliatoio. Dovevo indossare la versione della polo nera con le maniche lunghe, per coprire i due tatuaggi che avevo sulle braccia. Sempre il vicedirettore mi aveva detto che era la politica aziendale. Niente rose in mostra, o teschi, o timoni, o velieri, o scritte, o simboli fallici travisati in un lunghissimo telefono senza fili quale è la storia. Io avevo una rosa dei venti e una sorta di pergamena come incastonata nella roccia, che a molti sembra una lapide che brucia, ma il tema non è quanto brutti sono i miei tatuaggi, anche perché, per l’appunto, dovevo coprirli. M’infilai il cappellino scostando i capelli dalla fronte e mi guardai allo specchio. Faticavo a non riconoscermi in un fan di Vasco Rossi con una grande passione per il GigaCinema, la cui scritta arancione spiccava appena sopra il frontino. Inspirai, espirai. Era pur sempre il primo giorno di un nuovo lavoro, ed ero teso: dovevo imparare, sbagliare, superare imbarazzi, stare simpatico, risultare attraente (certo, con un cappellino del genere in testa, la cosa aveva le caratteristiche dell’impossibile tanto oltraggiate dalla Nike) e tutto il resto. Inspirai ed espirai di nuovo, e feci la strada di ritorno verso il grande atrio (mi fermai a prendere il fondo cassa in una stanza dalle pareti arancioni dove il vicedirettore mi fece un’altra battuta, che io non capii, colpevole il rumore catastrofico delle monete nel contamonete, ma a cui risi. Non so perché.)

“Sono Elpuberamato. Piacere!”. “Sì, sono nuovo. Piacere!”. Superai il bancone dei caffè e mi infilai nella lunga fila di casse dedicate alla distribuzione di popcorn e bibite e caramelle e dolcetti e salatini e … e … e …Mi presentai ad un altro collega, un certo Federico soprannominato Fippi, la sua cassa e postazione vicino alla zona delle caramelle sfuse, dove i colori sembravano aver dato vita ad una guerra nucleare. “Allora, sei nuovo?”. Annuii. Lui aveva sui quarant’anni e un sorriso da saggio e pervertito insieme. Qualcosa da cui diffidare solo nel caso in cui ci fosse stata mia madre nelle vicinanze. I capelli lunghi e neri cadevano dietro le orecchie, sotto il cappellino, e gli occhiali ingrandivano leggermente le pupille della stessa natura del sorriso. Svuotai il fondo cassa alla postazione assegnatami, dividendo le monete e le banconote per tipologia. I clienti, pochi e radi quel lunedì, mi scrutavano timidi e a qualche metro dal banco. Fippi disse: “Te ne ciavi”. “Come?” chiesi io. Mosse la mano come fosse un coltello che sta tagliando a fette sottili un cipollotto e approfondì il concetto: “Se non sei pronto, se non sei a posto, se devi allestire ancora i barattoli o controllare le spine, dei clienti te ne ciavi. Li mandi da me.” L’occhio si era fatto serio, fisso, il sorriso era svanito. Compresi che il mio addestramento era appena cominciato.

La serata procedette con le mille attenzioni ai nuovi particolari propri di un posto nuovo. Come tenere allestita la postazione, come stampare lo scontrino, come rapportarsi con il magazzino. Quando il combaciare della partenza di un paio di film di richiamo si fece sentire, quando una corta coda d’impazienti non vedeva l’ora di annusare il barattolo di popcorn a qualche centimetro dal naso ed entrare senza più pensieri verso il tunnel delle sale di proiezione, Fippi mi spiegò come gestire quella coda e le code in genere. Mosse la mano a taglio di cipollotto, disse: “Te ne ciavi. Tu vai con calma”. Annuii, sorrisi a lui, sorrisi al cliente, un uomo di mezz’età, i capelli quasi svaniti e spettinati, e il sopracciglio appena tremolante di un nervosismo in fase di elaborazione. “Cosa gradisce?” chiesi con tutta la lentezza del mondo.

Quando arrivò il momento di ricaricare la cella-vetrina riscaldata di popcorn, andai a prendere in magazzino un sacco di popcorn già fatti (si cucinavano in una sala apposita, ma ci sarà tempo per spiegare meglio anche quello). Strappai la testa ben chiusa con svariati giri di scotch e, attento, maniacale, assorto dal timore di rovesciare anche solo un paio di preziosi popcorn sul corridoio gommato, cercai di riversare con troppa timidezza l’intero contenuto nella cella. Fippi mi fissò e sorrise. Lo guardai, e sorrisi. “Che c’è?”. Fece no con la testa. “Devi essere più deciso!”. Intervenne, prese il sacco e lo rovesciò senza troppi complimenti; per terra si sparsero molto più di un paio di popcorn. Guardai il pavimento. Lui richiamò la mia attenzione. Taglio di cipollotto, “…Se cade qualcosa, te ne ciavi. Poi si pulisce e si butta via.” Mi piaceva quel Fippi.

A fine turno -verso le 22, prima della chiusura del cinema- mi venne spiegato come funzionavano le pulizie. “Allora” disse Fippi, e strappò un bel malloppo di scottex dal faldone, “…Tu devi pensare alla tua postazione.” Feci sì con la testa, lui spruzzò del detersivo per superfici sul malloppo e prese a strofinare. L’odore di prato asettico mi riempì le narici. “…Devi stare attento soprattutto alla spina, se è tanto incrostata passa dell’acqua calda. Poi il piano, e la tua zona dietro. Mi raccomando, la tua zona. Perché del resto…” Indovinai il finale della frase. Mani a taglio di cipollotto, “…Te ne ciavi. Ognuno pensa alla sua postazione”. Annuii e presi ad imitarlo nell’attività di pulizia.

Mi tolsi il capellino mentre spostavo la griglia metallica della spina nel lavello; dovevo grattarla sotto il getto d’acqua. Mi diedi un’arruffata ai capelli e cercai con lo sguardo un paio di colleghe che erano passate poco prima, addette al bar interno o destinate al ruolo di maschere…Chi lo sapeva! Fippi mi fischiò dietro. Pensai mi volesse dire -a modo suo- di lasciar perdere la griglia; ero già pronto ad un altro punto del suo manuale interattivo di precisione. Invece mi squadrò con le braccia piegate, le gambe leggermente larghe. Mosse il mento in avanti come un gangster. “Che c’è?” chiesi.

“Il capellino.”

“Eh?”.

“Devi tenerlo su.”

Del capellino -scoprii- non potevo ciavarmene.