PERCHÉ LEGGERE LA NARRATIVA

La lettura non ha uno scopo indirizzabile. Non è lo studio, attività a cui ci si dedica sia per arricchirsi di nozioni,sia per superare -per esempio- un esame. E non è neanche un lavoro –non per come la voglio intendere- dove è prevista un’utilità in termini tangibili, come uno stipendio per vivere o uno stipendio a cui ambire per vivere meglio. Se mi venisse chiesto cosa mi è piaciuto de Il giovane Holden, farei fatica a tracciare delle motivazioni: ricordo a malapena cos’è successo –letto due volte, ma mai studiato- e non ha avuto nessuna ripercussione evidente nella mia vita. Mi è piaciuto e basta.

Quindi se dovessi trovare un primo perché al leggere, sarebbe sicuramente quello del piacere. Non sopporto l’idea di leggere perché fa bene, o perché bisogna farlo, o ancora perché è necessario. Certo si richiede sempre un minimo sforzo, un misto di pazienza e fede nei confronti dell’autore, ma appunto bisogna affrontare la lettura bendisposti a questi due atti. Senza si possono leggere una quantità infinita di pagine senza trarne giovamento, se non la comoda ammissione di aver letto questo o quello, ammissione che porta nel vasto e superficiale territorio della vetrina culturale, più che del bagaglio. A quel punto è meglio non leggere: meglio fare dell’altro, qualsiasi cosa renda sereni. Qualsiasi cosa porti a rapportarsi con un misto di pazienza e fede verso un risultato incerto.

Sono contrario anche alla gara, alla famosa domanda: quanti libri in un anno? La prima e istintiva risposta è quella di guardarsi i piedi in preda alla consapevole vergogna di non aver letto abbastanza. Magari è vero -ci si fa prendere dalla pigrizia- ma è una cosa che riguarda se stessi. Non c’è un numero minimo di libri che garantisce l’adesione al club dei buoni lettori. Non è il numero –anche qui, se vogliamo sempre andare oltre la vetrina- a trasmettere, ma il modo e il metodo di lettura.  

Ecco, se c’è un perché nel leggere è quello della trasmissione…ma trasmissione di cosa? Per quanto riguarda il romanzo o i racconti, punti di vista. Punti di vista reali, non assoggettati –se è un buon libro- ai canoni doverosi ma anestetizzanti della socialità. Una sorta di vago richiamo ad un discorso di Pasolini sulla televisione, dove, secondo il filosofo, le regole di comunicazione del mezzo ingabbiano la massima libertà di pensiero. Questa gabbia –seppur doverosa- riguarda anche la socialità, e i libri permettono di andare oltre, di conoscere senza schemi intermedi. Un utilizzo della fantasia per scandagliare a 360° la realtà di una o più visioni.

Ora forse risulta più chiaro il modo e il metodo ideale di lettura inteso prima: non è tanto la storia, come va avanti, dove finiscono i personaggi, cosa succede loro -non stiamo parlando di serie tv- ma come reagiscono, cosa pensano, come rispondono al nervosismo, alle liti, alle tragedie e alle situazioni di vita, monotona o movimentata che sia. E’ quasi un’analisi inconscia nelle pieghe della trama. Il romanzo in questo senso necessita –urlando, spingendo e ringhiando insieme- di lentezza. In un girotondo frenetico in cui il lavoro, le relazioni e le decisioni richiedono un’attitudine alla fretta, questa specifica esperienza di lettura pretende l’esatto opposto. Diventa quindi un atto di ribellione silente, quasi dimenticato, e forse per questo tendente al romantico. Per alcuni un motivo di allontanamento, per me un ulteriore motivo di avvicinamento.

La conseguenza naturale del leggere bene -e ripeto, non necessariamente tanto– diventa quella di saper costruire percorsi. Percorsi umani e dell’umanità. Come il percorso ideale verso la cima di un monte è quella dal basso verso l’alto, lo stesso si può dire della conoscenza. I piccoli aspetti di vita in ogni storia -anche qui, non esiste uno spettro di titoli a garanzia del risultato- insegnano a comprendere e capire meglio i rapporti logici (umanamente logici, quindi tendenti all’illogico) che si instaurano oltre le pagine, e non solo tra un marito o  una moglie, o tra un assassino e un detective. Ma anche tra politici e i loro stessi ideali, tra un attore e la sua performance, tra le delusioni e le soddisfazioni, tra il dolore e la gioia, tra il razzismo e la lotta ad esso: potrei andare avanti all’infinito. Ovviamente è un genere di scoperta lento, da bradipo in una terra di canguri. Ma –almeno a me capita così- più vivo da bradipo, meno vorrei saltare.

E forse alla fine un buon motivo per leggere è semplicemente che fa venire voglia di leggere ancora: forse fa capire quanto sia assurda e impraticabile la pretesa di capire tutto del mondo, e lascia scavare oggi su qualcosa che si conosceva peggio, e senza saperlo, ieri.