SUL LOCALE “TOCAI”

Era venerdì e addosso ci si metteva il vestito preferito; una camicia o i jeans che cadevano in quel modo perfetto con un paio di risvolti ben stretti sopra le caviglie. La macchina era carica di amici, le sigarette sguainate e le parole venivano fuori piuttosto facili come dall’autoradio veniva fuori della musica un po’ pop un po’ rock, ma decisamente alla moda dell’antimoda. La città aveva le strade piene di persone che camminavano e chiacchieravano non curanti delle auto, e di auto che accendevano il rosso del freno a ripetizione maledicendo l’attenzione e la cura dedicata ai pedoni. I parcheggi sembravano finti: sembravano macchine con sotto delle linee: sembravano prendere in giro ad ogni giro per trovare un buco: un parcheggio vero, arioso nella sua sostanza vuota. I cellulari cominciavano a squillare di domande sul ritardo o sulla posizione o di stupore: perché si era ancora lì, in macchina, a fare un altro giro? Si usciva ancora sulla circonvallazione, si pregava il mistico dio del parcheggio con delle preghiere tipiche come vaffanculo questa merda di città senza un parcheggio o cazzo le faccio esplodere tutte queste macchine di merda o ancora cosa cazzo vengono a fare tutti quanti qui questi cretini, sperando che qualcuno in un futuro prossimo, molto prossimo, si chiedesse lo stesso di sé vedendo la propria macchina parcheggiata. “Lì, lì!” faceva l’amico, ormai già alla terza sigaretta del viaggio -in tempi normali, e con tempi normali si intende una mattina di giovedì, sarebbe durato giusto cinque minuti abbondanti- e indicava un parcheggio all’apparenza libero. Si pensava subito ad una Smart, ma il venerdì sera le banalità lasciavano sempre il posto a sorprese inaspettate: c’era una Vespa 125, o una Moto Guzzi. Le preghiere si intensificavano, di volume, di ritmo, di spessore. Un clacson dietro, una freccia, clacson, freccia, clacson, clacson, il volante girava, di nuovo dentro  il centro città dove i pneumatici tremavano sul porfido. Terreno accidentato, terreno per coraggiosi che le tentano tutte. Veniva quasi voglia di tornare a casa a guardarsi un film e, solo a quel punto, una macchina sopra le linee colorate accendeva i fari. Un uomo e una donna di mezz’età avevano sforato di una mezz’ora dalla loro ora abituale di uscita serale e parlucchiavano mentre lui avanzava in prima fuori dall’incastro calcolato. “UUUUUUHHHHH!” faceva un altro amico, e tossiva per la gioia. La macchina si infilava, si scendeva con il sedere leggermente sudato, si distendevano le gambe. Non si poteva parcheggiare più lontano dal locale di ritrovo, ci sarebbero voluti a spanne venti minuti di camminata, ma la salita era passata, i dubbi erano sciolti, la pre-decisione diventava decisione: si beve una cosa, due cose, tre cose, al Tocai.

Il Tocai il venerdì sera si presentava a prima vista come una folla di persone, come un grande concerto senza palco. Il vociare aveva un eco che attraeva chi aveva quell’età e allontanava chi non aveva quell’età. Un’età elastica e a tratti soggettiva. All’apparizione della folla, in fondo alla piazzetta, che ha un che di unione di strade, che ha un che dei Five Points di Gangs of New York, i gruppi di amici molleggiavano leggermente le gambe, sorridevano tra loro nel grugno di partito, fumavano, pensavano, come un branco di maschi-gorilla pensanti, a quello che era sempre stato: qualcuno di simpatico c’è eh, ma meglio di noi? Il sorrisetto dei migliori incorniciava il viso che vedeva al suo apice il ciuffo di capelli ben sistemato nella sua falsa casualità. La folla si faceva attorno, la folla diventava il singolo, si salutava questo e quello, questo e quello, questo e quella. Le donne scherzavano tra loro, fumavano e annuivano all’osservazione pungente dell’amica; alcune aspettavano che qualche uomo provasse a picchiettare sul loro guscio, ma scoprivano che, meglio dell’uomo, a picchiettare sul guscio riusciva l’alcol. Bevevano, e bevevano ancora. Il locale illuminava i visi a metà, si distendeva in orizzontale, lì di fronte, con un portico agghindato da piante e posacenere troppo pieni, e all’interno la folla di assetati si distingueva dalla folla dei bevitori per l’ansia di arrivare di fronte al bancone di legno bagnato di tutto il menù delle bevande. La birra è accettabile, il vino della casa fa schifo, lo spritz è uno spritz. Dal bancone si passavano i bicchieri di mano in mano, perché tra i gruppi c’era sempre l’eroe della serata che ordinava per tutti, e per quelli che si erano aggiunti dopo. Un primo sorso, un altro tiro di sigaretta. I “Come va?” non smettevano di risuonare fino agli appartamenti dei piani di sopra; se ci si fosse sforzati un attimo si sarebbero sentite le lamentale degli inquilini e, come se fossero state battute di un comico, si sarebbero ascoltate, ci si sarebbe fatti una risata e si sarebbe ripreso a chiedere “Come va?”. Un amico parlava biascicando e, non si sa come, pensava di aver acquistato uno sex appeal straordinario, come se fosse stato l’ingrediente speciale a rendere cattivo il vino della casa bevuto a ripetizione. “Scaaaaiiiicheeeeeeessstaaascceraseiproprioooobella?” diceva ad una ragazza che si conosceva, la ragazza lo squadrava e sorrideva e, un po’ triste un po’ contenta, decideva di continuare a bere per non badare a quello che era appena successo o a quello che sarebbe successo. “Bellaaaabellaaaabelllaaaaa!”. C’erano abbracci e urla, qualche spintone ogni tanto produceva occhi puntati e curiosi, e scommesse dalla posta mai eccessiva, un paio di birre al massimo. I baristi fumavano una sigaretta in pausa, la tregua dalla battaglia con nemici in parte grandi amici. C’erano baci tra amanti e baci di congedo, alla prossima!, ma la folla non si sfaldava, non si scioglieva fino a che i pacchetti di sigarette cominciavano a scarseggiare. Una puntata al tabacchino. Una puntata in coda al tabacchino che richiedeva la tessera sanitaria, e allora bisognava prestarsela, e una ragazza che si conosceva, chiedeva al gruppo di maschi dietro se per caso potevano prestargliela, e allora un amico la guardava e diceva: “Loscaiiiicheeeestasceeeraseiiipropriobellaaaa?”.

Arrivava la notte, quella tarda, di chiusura, senza accorgersi esattamente del modo in cui arrivava. La serata era passata come il venerdì precedente e probabilmente quello successivo. Le parole si erano alternate ai sorsi, i sorsi ai tiri di sigaretta, i progetti erano nati e naufragati, i problemi raccontati a metà sarebbero ritornati l’indomani. Ci si consolava con qualche chiacchiera di mesta saggezza ritornando alla macchina, con la città ormai silenziosa, illuminata dei soli lampioni che, come le luci dalle vetrine del Tocai, illuminavano i visi a metà.

Dopo qualche anno, si parla di lei o di lui, che hanno fatto qualcosa, forse qualcosa di speciale o qualcosa di normale, e ci si dice che è da una vita che non lo si vede in giro. Ci si dice che lo si vedeva sempre al Tocai, il venerdì sera.

Quel momento della giovinezza in cui era erano eravamo, goffa e sgargiante, arrogante e ingenua, ancora una folla.