SUL TARS

Di base non lo consiglierei a nessuno. Al massimo sarebbe interessante trasformarlo da corso di laurea in corso ricreativo (…forse è già stato fatto?). Niente di serio: niente che abbia a che fare con stipendi e carriera. Qualche ora serale da passare in compagnia, alla ricerca di nuove conoscenze e nuovi argomenti con cui poi fare bella figura alle cene di Natale. Tars (contorta modifica veneziana del nazionale Dams) sta per Tecniche artistiche e dello Spettacolo; per anni ho pensato che non esistesse la e ma che fosse Tecniche artistiche dello spettacolo e che, iscrivendomi, avrei imparato a maneggiare l’arte di intrattenere o qualcosa del genere. Non è successo. Cos’ho imparato quindi? Ci devo pensare un attimo.

Gli esami erano per lo più orali in cui la buona esposizione di un argomento a piacere garantiva il 25. Quindi dei vari libri che si sarebbero dovuti studiare, bastava una serrata lettura di un paragrafo poco prima del proprio turno d’esame. Così ho passato Scenotecnica e Storia della danza e del mimo, materie di cui ricordo solo le facce perplesse dei professori ad ascoltarmi. Fossi riuscito a fregarmene delle brutte figure da scena muta, mi sarei laureato prima, ma all’epoca ero ancora giovane, ancora una brava persona, e provavo vergogna per gli atteggiamenti grossolani. Ovviamente la laurea non è solo un dovere da adempiere noiosamente nozione dopo nozione: esiste -o dovrebbe esistere- l’interesse per le materie. Qualche esame di cinema ha toccato le corde che andavo cercando dopo il liceo: leggendo il libro di “Storia del cinema italiano” ho scoperto la corrente neorealista e grazie a “Critica cinematografica” mi sono affacciato ai francesi e ai loro Cahiers du cinéma. Ma poi? Il mio interesse era ed è abbastanza limitato a dei campi e sul confine di questi campi distendo una doppia linea di filo spinato. Non si esce e non si entra facilmente. Esami come Diritto dell’organizzazione teatrale o Teoria musicale riuscivano ad attirarmi nello stesso modo bislacco della storia insegnata a scuola, una serie di definizioni e numeri da ripetere senza una reale padronanza. Un esercizio più mnemonico che logico.

Per buona parte delle lezioni mi sono domandato cosa ci facessi esattamente lì. Avrei potuto cambiare facoltà, comprendere fino in fondo l’errore della mia scelta, ma all’epoca ero ancora giovane, ancora una persona ingenua, e provavo vergogna per le mie esagerate ambizioni.

Durante una lezione del corso di “Storia della televisione italiana”, il professore ci chiese cosa volessimo fare da grandi. Perché avevamo appunto scelto di essere lì, seduti al suo corso. Io pensai al maledetto obbligo di frequenza, ma tacqui, anche se sono sicuro ce ne fossero stati un po’ a cui si insinuò lo stesso pensiero con la stessa limpidezza. Nell’aria volarono risposte risicate e allora il professore ci fece una rivelazione che risuonò in tutta la sua ostica verità.

Parafrasandolo: “Se siete qui per diventare registi -se volete raccontare delle storie- non vi serve a niente questo corso. Dovete fare altro, scoprire il mondo nelle sue sfaccettature, studiare chimica e fisica o andare a lavorare, e così avrete del materiale. Le tecniche si possono imparare dopo in tanti modi ma il materiale…”. A quel punto, dato il mio spirito polemico e l’accusa seria ed impeccabile, gli avrei domandato se avesse potuto firmare i fogli presenza così da lasciarmi raccogliere materiale al posto di seguire il corso. Ma all’epoca ero ancora giovane, ancora una brava persona, e avevo paura di punzecchiare il prossimo. E poi -anche se era un’impresa ammetterlo perché avrebbe voluto dire rivedere chi ero e a vent’anni l’unica cosa che desideravo era confermare con forza la mia identità- il professore aveva ragione.

Ci misi molto a capirlo, e ancor di più ci misi a capire che il professore parlava forse sulla base dell’esperienza. Infatti, qualche mese dopo venni a sapere che era stato alunno di un grande regista e che era stato uno dei primi frequentatori del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma (“Proprio lui che ci ha detto di ricercare materiale!” esclamai in un raglio), ma, ad analizzare la carriera da regista, si poteva notare la difficoltà a staccarsi dal tema cinematografico e la mancanza effettiva di materiale. In generale, a voler trovare un malizioso comun denominatore nei professori del Tars, le carriere sembrano assomigliarsi un po’ tutte: grandi appassionati, addirittura disposti a trasmettere le loro passioni, ma non proprio sciolti ad esprimere sé stessi attraverso le discipline artistiche amate. Una dannazione dettata -a mio modo di vedere- proprio dalle scelte, non lontane alla mia dell’epoca di iscrivermi al Tars. Lo stesso corso di laurea è, alla fin fine, un sonoro vorrei ma non so se me la sento. La tentazione di volare, la corda ben legata ad un ponte di possibilità alternative – le normali possibilità di chi non ha velleità artistiche- per evitare di precipitare. Ora non vorrei prendere ad esempio Nolan e il suo Batman-Il ritorno del cavaliere oscuro…ma perché non farlo? Quando Bruce Wayne si ritrova a dover evadere dalla prigione sotterranea, scalando una pericolosa parete simile ad un pozzo gigantesco che dà sul cielo aperto, l’unico reale modo per riuscirci è arrampicarsi e spiccare il salto tra due sporgenze, il punto più ostico, senza corda.

L’area del mio titolo di laurea è umanistica, e ho maturato l’impressione che fondere un passo carrieristico, qual è la laurea, con lo studio degli aspetti umani sia -oggi, non so ieri- un paradosso. La gara è sempre in corso, il risultato un indice di valutazione personale, l’attrattiva è di accaparrare nozioni ma di lasciare le reali sfaccettature dell’umanità -che sia per il tempo necessario o per un nascosto disinteresse o ancora per non aver proprio compreso l’esistenza di questa disciplina dimenticata e frammentata tra mille altre materie rese più lampanti dalla facilità d’accesso alla conoscenza (Sono io!)- in un angolo buio in cui, a questo punto, solo grandi perditempo possono avere il lusso di curiosare. Dal canto mio, sono convinto di aver scoperto l’angolo buio ma di averlo scoperto colpevolmente tardi, e di non aver dato abbastanza fiducia a chi attorno a me sussurrava timido della sua esistenza. Pochi, tra professori e studenti, e puntualmente senza microfono in mano.

La domanda iniziale è: cos’ho imparato, quindi? Ringrazio di alcune conoscenze che, come liane, hanno creato una catena di altre conoscenze e che hanno dato il via ad un percorso. Sono quello che sono anche grazie alle passioni gentilmente convogliate da uno dei tanti professori passati tra un’aula e l’altra. E ringrazio per il fraintendimento e per quello che si è rivelato, in ultima analisi, un errore. Sono quello che sono anche grazie ad un’iscrizione frettolosa e ad un’insistente frequentazione dettata da un misto indigeribile di cocciutaggine e pigrizia. Ho imparato che i difetti, gli insuccessi e le scelte sbagliate mi definiscono più dei risicati successi e delle ambizioni soddisfatte: un pensiero non sorprendente ma in fine dei conti molto umano. Che è meglio non far sapere in giro, neanche in una facoltà di stampo umanistico.