
Sono il tipo di uomo a cui piace sentirsi dire no. Se una ragazza mi dice che no, non gli interesso, non vuole passare del tempo con me, va a finire che questa mi piace, mi intriga. Credo sia una questione di vederla come una sfida, con me stesso o con la ragazza o con il mondo: non saprei. So che se è no, voglio provare a farlo diventare un sì. Ovviamente, come si sarà ormai capito dai vari articoli precedenti del blog, l’impresa è titanica; tra le altre cose, mettiamoci pure il fatto che non sono proprio il Casanova di turno, che con occhiolini e bacetti non riesco ad ottenere granché, anche perché se la ragazza ha detto no, o comunque mi fa capire che non ce n’è, immagino che il fatto di abbracciarla e fare di qualsiasi gesto un ammiccamento, le darebbe parecchio fastidio. Finisco in un paradosso in cui voglio conquistarla ma non posso farlo con le classiche mosse da conquista. Ad una riunione di testosterone, mentre gli altri vantano la loro collezione di scopate o relazioni, io sono quello che vanta le non scopate e le non relazioni: questa non me la sono scopata per un paio di mesi, ah questa non me la sono fatta solo per una notte: un’avventura, questa invece non me la sono mai fatta per due anni: ci tenevo molto. Non ne faccio personalmente una malattia ma credo lo sia.
Ho cercato di capire da dove provenisse questo piacere perverso per la sconfitta e, a ripercorrere la mia vita a ritroso, ho capito che c’è stato un momento in cui ho deciso di essere quello che sono, ovvero un perdente sempre vicino alla vittoria: l’eterno secondo, o terzo (perché in tutto ciò c’è da ammettere che alle ragazze, di default, non faccio schifo). Quel momento, diciamo più periodo perché non riesco a ricordare un aneddoto preciso, coincide con il fortificarsi di un rapporto d’amicizia nato a tre anni con Giulio, interista da quando ha coscienza. Non credo abbia mai davvero creduto in qualcos’altro che non sia il Meazza o Djorkaeff.
Avevamo sui sette anni; io ero ancora confuso sulla mia fede calcistica: cambiavo squadra di continuo, dal Milan al Parma, passando per la Cremonese. Sì, la Cremonese. Mi piaceva il nome. Nei pomeriggi dopo scuola, andavo da Giulio e la maggior parte del tempo la passavamo ad attaccare figurine Panini nel suo album; ovviamente mi contagiò con il suo entusiasmo, quando, scartati i pacchetti, ritrovava Nicola Berti e Marco Branca. Nicola Berti e Marco Branca: mi aveva convinto che questi due calciatori fossero i campioni indiscussi della Serie A. Avendo conferma anche da mio padre che la via da seguire era quella, che Berti e Branca erano davvero dei cavalli su cui puntare, cominciò la mia storia da tifoso nerazzurro. Molti anni dopo, capii che confondere giocatori dalle medie capacità per giocatori dalle indiscusse qualità era parte della cultura interista.
L’anno in cui venne acquistato dal Barcellona Ronaldo Luìs Nazàrio da Lima, qualcosa nel mio animo cambiò: divenni un tifoso vero, appassionato. Complice anche la carriera fiorente nel calcio giocato (mi stavo trasformando nel secondo mediano più forte del Ponzano Calcio: sempre secondo), cominciai a seguire, partita per partita, le giocate del brasiliano e le vittorie della squadra, allenata da Simoni. Intanto cresceva la rivalità con il campione in casa Juventus, Del Piero, e, in cuor mio, cominciavo a covare una certa antipatia per quei colori, il bianco e il nero. Anche in questo processo, Giulio fece la sua parte. In un’età in cui tutti, con messaggi più o meno diretti, cercavano di insegnarmi la filosofia “amare e volersi bene è il segreto di una vita piena e soddisfacente”, lui,controcorrente, sosteneva che se si doveva voler bene a qualcuno, allora qualcun altro doveva per forza di cose stare sul cazzo. E vivere una vita piena e soddisfacente era voler bene certo, ma non dimenticare mai chi stava sul cazzo, e ricordarlo al mondo: ricordarlo ad ogni occasione. E a lui stava sul cazzo la Juve. A questo punto, era bastata una piccola scintilla a trasformarmi in un antijuventino convinto che aveva promesso di odiare i gobbi, per sempre: un rigore non dato a fine campionato, nello scontro diretto. Juventus-Inter del 26 Aprile 1998. Iuliano su Ronaldo. Fa ancora male.
Superato quello che potrei definire come il primo trauma sportivo della mia vita (il secondo è aver calciato fuori due rigori nella stessa partita: non calciai mai più un rigore in ambito ufficiale), gli infortuni di Ronaldo, Lippi in panchina e alcuni acquisti poco felici (Vampeta) mi fecero perdere le speranze sulla possibilità di festeggiare la vittoria a fine stagione. La saga dell’eterno secondo era cominciata.
Arrivò il cinque maggio del duemiladue: Ronaldo in lacrime, Cùper incredulo e Gresko confuso ancora oggi su quello che successe in quei novanta minuti. Da primo in classifica, l’Inter passò terzo in una partita. Neanche secondo: terzo. La Juventus portò a casa lo scudetto e, a me, non restava che inveire contro i successi della nemica storica.
Ma un giorno, pensavo, arriverà qualcuno a punire quell’arroganza, quella vanità e quell’ostentazione. Arriverà l’Inter dei campioni a togliervi tutto.
Nel duemilasei, non arrivò l’Inter ma il CONI, la FIGC e la giustizia sportiva e non. Andò bene comunque: la Juventus venne punita e retrocessa in B per casini con gli arbitri e lo scudetto assegnato, a tavolino, all’Inter. Ora: in molti dicono che la dirigenza nerazzurra avrebbe dovuto rinunciare allo scudetto per onestà, dato che non lo vinse sul campo, prescrizioni, ecc. ecc. Che è un po’ come dire che se il capo offre un aumento di stipendio e sotto sotto non lo si merita, si deve ringraziare ma rifiutare l’offerta.
Cominciò così la favola dell’Inter, prima di Mancini e poi di Mourinho: finalmente dopo anni di sconfitte e sofferenze, cominciò a vincere. Il tutto ovviamente culminò nel duemiladieci, con la vittoria dello scudetto, della Coppa Italia e della Champions: il Triplete.
Nonostante l’inesperienza ad alzare qualsiasi tipo di coppa, la squadra si dimostrò unita, pronta e determinata e superò qualsiasi tipo di ostacolo: Barcellona di Messi, Roma di Totti, Quaresma sulla fascia.
Oggi l’Inter è tornata ad essere quella che è, ma ormai ho capito l’inerzia: dopo anni di buio e oblio, se ne esce per un’incredibile, orgasmica stagione, in cui vince tutto e su tutti. Basta attendere, fiduciosi.
In conclusione:
-A Giulio e ai fratelli interisti: che goal quello di Djorkaeff contro la Roma. Indimenticabile.
-Agli amici juventini: oh, in Europa si tifa tutti insieme le italiane. Vi auguro di arrivare in finale di Champions, come gli anni scorsi.
-Alla donna che si è già negata, a quella che si negherà e a quella che si negherebbe, tifosa della Juve, del Milan, dell’Inter, del Parma o della Cremonese, che sta leggendo: stasera Triplete?