UN PESSIMO STUDENTE

“Ma scusa…tu non eri un secchione?”. La domanda retorica di una cara conoscenza recente, totalmente estranea ai miei anni di studente. Dato che scrivo, leggo e ogni tanto cito qualche scrittore a mo’ di un subdolo “ma quante ne so?”, si era fatta quest’impressione: un secchione. E chiaramente, come capita spesso alle logiche facilone di ognuno di noi, non c’è niente di più lontano dalla realtà.

Forse alle elementari mi si poteva definire tale. Studiavo per far contenti i miei genitori. La soddisfazione che provocavano i miei bei voti – i sorrisoni che vedevo sulla faccia di mia mamma e le pacche sulle spalle di mio papà – garantivano una gratifica unica agli sforzi, che superava di gran lunga una bella prestazione domenicale con la squadra di calcio, un ambiente poco incline alla bonaria ostentazione del riconoscimento, regolato in maggior misura da rivalità e gerarchie. Mi piaceva essere bravo perché così venivo riconosciuto: non studiavo matematica o la grammatica italiana per la curiosità scaturita dall’incertezza di un risultato o dalle regole vigenti tra una parola e l’altra, volevo solo la mia targhetta. Se qualche scintilla di passione era nata, quella poteva trovarsi nella libertà dell’ora di disegno, dove, qualsiasi cosa mi capitasse di rappresentare – bene o male – i complimenti si sprecavano come i trucioli di matita. Poi, ovviamente, l’ora di ginnastica: un punto fermo dove mettere in mostra alle compagne di classe la presunta e armonica perfezione tra corpo e mente.

Come secchione, in ogni caso, non ero il numero uno della classe. Se la memoria non mi inganna – e se mi inganna lo fa per eccesso – mi classificavo terzo. Non miravo al gradino più alto del podio perché sentivo di essere il migliore tra il mio gruppo di amici e la mia sete di vanità – già presente in un’epoca che la mitologia vuole innocente ma in cui i miei occhi non facevano altro che controllare attraverso il riflesso delle finestre se il perimetro del cuoricino sulla fronte, formato dai miei ciuffi di capelli ordinati da una riga centrale, avesse la giusta curvatura – era placata. Vivevo serenamente tra l’ammirazione costante dei miei genitori e delle maestre (anche i loro complimenti finivano nella borraccia a dissetarmi) e l’impressione di generare, grazie a quel mezzo voto in più, una punta d’invidia nel prossimo.

Le scuole medie rappresentarono una leggera incrinatura dell’equilibrio; le regole che conoscevo non venivano sovvertite, solo messe in dubbio. Le compagne di classe sembravano interessarsi alla sola armonia del corpo, più che della mente, e pure io sognavo di baciare i visi più delicati e di tastare i seni appena sviluppati delle più prosperose. I complimenti dei miei genitori si fecero meno entusiasti – venne fuori per la prima volta il classico “hai fatto solo il tuo dovere” – e alcuni amici iniziarono a costruire una corazza cui, in poco tempo, si sarebbe potuta attribuire la definizione di orgoglio. Non potevo restare alle scuole elementari? A restarmi fedele alleato, il cuoricino di capelli sulla fronte: scoprii i miracoli di fissaggio del gel per capelli.

Gli argomenti delle materie, oltretutto, divennero più spinosi. I temi di italiano cominciarono ad essere definiti saggi brevi, le operazioni si trasformarono in equazioni e disequazioni, la storia cominciava un tortuoso avvicinamento con una lente d’ingrandimento alle sue stesse vicissitudini, e l’ora d’arte prevedeva infedeli riproduzioni di nature morte, che, oltre a causarne il decesso, seppellivano in gran stile ogni mia vena creativa. Nonostante un calo di rendimento e d’intenti durante il primo quadrimestre della seconda media, la cui punta dell’iceberg fu un compito di francese che non volli far scoprire a mia madre, vista la sola e misera sufficienza, e su cui apposi la mia prima – ma di certo non ultima – firma falsa, che trovai lì per lì penosa, e che allora, basandomi su non so quale logica, probabilmente nessuna, cancellai con il bianchetto, per poi riprovare una seconda firma, più penosa della prima ma presa per buona, immagino con la stessa logica di cui sopra, la quale firma scaturì un rimprovero scandalizzato della professoressa davanti all’intera classe e le mie conseguenti lacrime di vergogna; ma dicevo, nonostante il calo del periodo, resistetti alle remore sullo studio e la sua utilità in termini sociali, e galoppai con fervore verso un gagliardissimo Distinto.

Il tonfo, la crisi, erano già dentro di me; li percepivo come si sente l’odore della neve prima che nevichi.

Superai la prima superiore con un solo debito – un debito che all’epoca aveva l’utilità di una salvietta da bar utilizzata per assorbire dell’acqua spanta su di un tavolino– e, giunto in seconda, nella piena lavorazione del mio stile – ascoltavo hip hop – e dei miei hobby – pensavo spesso al basket – smisi di studiare. Fu quasi una decisione netta; dopo ogni insufficienza, mi dicevo che avrei recuperato, ma sapevo che non era vero. Sapevo che sarei stato bocciato senza appello. Me ne importava? I miei genitori, sicuri di aver fatto imboccare al figlio la strada della coscienza, caddero dalle nuvole e i miei amici mi guardavano e mi trattavano con un misto di comprensiva pietà e allegro cinismo. La necessità di essere apprezzato dagli altri, che da un lato non mi mollava ma aveva assunto dei caratteri fantomatici, in termini realistici aveva perso ogni attrattiva. Volevo piacere per qualità, azioni e capacità che non mi appartenevano, e, di contro, i risultati nel versante tangibile erano diventati superflui. Convocato per le interrogazioni, rispondevo direttamente “Non sono preparato” e, negli ultimi due mesi, mi presentavo in classe un giorno alla settimana. Sognavo di diventare un affermato giocatore di basket, ma, appunto, come in ogni sogno che rimane steso sul cielo delle illusioni, non avevo alcuna intenzione di affrontare le inevitabili difficoltà per la riuscita (con grosse probabilità non avevo nemmeno il talento necessario, covando quindi il terrore di rendere inoppugnabile questa triste realtà).

La prima bocciatura non segnò particolarmente il mio stato d’animo – era una conseguenza di qualcosa e non si trasformò in causa di qualcos’altro – come non lo segnò neanche la seconda, avvenuta al primo tentativo di terza superiore. Ero già cambiato, era già cambiato tutto: d’altronde al liceo un anno equivale ad un’era. Ero tornato schiavo delle tendenze sociali, quindi avevo il mio pacchetto di Marlboro Lights (che pian piano, aumentando i ritmi delle sigarette fumate per giorno si era trasformato nel più economico pacchetto di Winston Blue), jeans di marca e la mia ossessione per il perfetto modellamento del ciuffo di capelli -che ora, al posto della sagoma di un cuore, formavano una frangia ondulata verso destra- si manifestava con una cadenzata e attenta carezza della mano. Quell’anno non studiai nulla, troppo preso da un resto che si stava ampliando magnificamente e smisuratamente tra le serate in discoteca, la scoperta delle canne e dell’alcol, e la disinibizione sessuale delle ragazze richiesta a gran voce. I miei genitori, dopo aver ritirato sconsolati la pagella di sole insufficienze, si erano arresi all’idea di aver cresciuto un depravato. “Guardate che c’è molto di peggio in giro! Ragazzi che…picchiano! E…si drogano seriamente! E…e…uccidono!” cercavo di consolarli.

Finii in una scuola privata a recuperare uno dei due anni che avevo perso.

La mia esperienza su questi istituti –i famosi due anni in uno– conferma le leggende narrate sull’argomento: una passeggiata condita da qualche seccatura di poco conto. Per esempio: la vergogna per essere stato bocciato due volte. Pensavo che la classe fosse costituita da un gran numero di semplici ragazzi svogliati come il sottoscritto, invece i più erano sportivi troppo presi dal loro talento per dedicarsi allo studio. Quindi io, che con il basket avevo chiuso, perché ero lì? Ero solo uno che…non aveva voglia di studiare? La risposta è sì, ma all’epoca suonava troppo stonata per le aspettative che avevo sulla mia persona, quindi gonfiai la passata carriera da cestista, ammettendo che sì, avevo smesso per la scuola, obbligato da quella fissata di mia madre, ma che avevo militato fino all’anno prima tra le schiere della squadra principale di Treviso, la Benetton Basket. Mi ricorderò sempre un compagno che, durante l’ora di educazione fisica, dopo un mio tiro a canestro, disse: “Si vede che hai il polso da Benetton”. “Non sai quanta fatica per arrivarci” risposi.

Altro esempio: la prima ora era solito dormire. Nessuno scherzo, nessuna esagerazione. Mi appisolavo sul banco, non riuscendo a trattenere il sonno. Il professore di storia e filosofia, notata la mia – a suon modo di vedere malsana – abitudine, convocò mia mamma per chiederle se avessi problemi di droga. Fu difficile convincere la corte di adulti che, a farmi dormire, era semplicemente una forte sonnolenza pronta a svanire dopo le nove. “Non si può neanche più avere sonno!” inveivo contro l’accusatoria di mia madre, che a quel punto rispondeva “…E allora vai a letto prima!”. Come sempre, aveva ragione.

In quinta superiore tornai alla scuola pubblica. I soldi per mantenere la mia pigrizia erano finiti. Quell’anno si contraddistinse per l’amicizia inaspettata con due compagni di classe – un’amicizia che proviamo a mantenere tra le mille difficoltà degli anni che passano; capii, da loro e dal loro approccio alla vita, quanto fosse debole la correlazione tra l’apparenza e la sostanza, un concetto semplice nella teoria ma ben più complicato da incarnare. All’epoca non mi era chiaro, ma fu quel rapporto – agli ultimi banchi, in un continuo alternarsi tra battute e dubbi sul futuro – a trasformare in parte la visione di me stesso, a farmi accettare più serenamente chi ero.

I miei avevano dichiarato che non sarebbero andati a parlare con nessun professore: avevano alzato bandiera bianca. “Sono fatti tuoi, ormai” aveva sancito mio padre. Dovevo rimanere promosso. Fosse anche solo per l’investimento dei “due anni in uno”, che, in caso di bocciatura all’esame di maturità, sarebbe andato perso.

A quel punto, studiai.  

Dopo i sudori freddi di quell’anno, dovuti allo scadente livello di preparazione che avevo in tutte le materie e all’impegno per portare il livello sulle soglie dell’accettabile (escluse matematica e fisica, che avevo strategicamente accantonato), decisi che all’università, per i primi tempi, mi sarei un po’ riposato.

“Un secchione?” ho risposto alla mia cara conoscenza recente. “Non proprio”.