
2019
“…Ringraziamo la nostra Rosa per l’affetto e le parole. Ora andiamo con la musica, ci risentiamo a breve, brevissimo…non cambiate stazione. Non ora, cari ascoltatori!”.
Enzo abbassò il volume del microfono, alzò quello del programma da dove era partito un vecchio pezzo da cinema anni ’60. Respirò a fondo, alzò lo sguardo. I suoi occhi grigi come la barba e i pochi capelli in testa si riflettevano sul plexiglass che divideva il salone illuminato di messa in onda e registrazione dal magazzino delle memorie. Si tolse le cuffie screpolate, superò la porta sovrastata da un neon giallo, e si ritrovò nella penombra dettata da una piccola finestra laterale. La notte era avanzata; la luna illuminava giusto qualche cartone di vinili impolverato. Ammirò gli scaffali, dove si trovavano accatastati giradischi rotti e casse malconce, cavi e radio d’epoca.
E pensare che tutto è partito da uno stanzone vuoto, pensò.
1976
Quarant’anni fa, quarantatre per la precisione. Richi li aveva portati con la sua macchina, un’Alfasud con la marmitta scoppiettante, in quella via della città non molto conosciuta, una stradina contornata da palazzi di media altezza; i tetti piatti, l’intonaco di vari colori dal grigio al rosso e giallo. Qualche tabacchino, un alimentari e una miriade di bar sport che vendevano sottobanco sigarette e sigari. Mettendo la chiave nella toppa del portone, un pezzo di legno mal verniciato, Richi quasi tremava dall’eccitazione. Era vestito come al suo solito: i jeans a zampa, una camicia blu a pallini blu; i capelli biondi erano divisi da una riga dritta, la solita riga dritta che sembrava studiata da un ingegnere. Il sorriso. Aveva quel suo sorriso da frullatore di idee, un arco improvviso e scattante. Sicuro.
Accompagnò Enzo e Gianni su per la scale scoscese. Strette e impolverate, Gianni aveva pensato, anzi pregato, che reggessero il suo peso. Era un bolide di cento e passa chili; i capelli mori cadevano corti sulla fronte e gli occhiali gli davano un tocco di saggezza che proprio non aveva. Una bugia dell’apparenza.
Arrivati in cima (Gianni con un fiatone memorabile), Richi li condusse sulla destra di un corridoio. Poi, una volta che i due amici superarono un piccolo varco, si mise in mezzo alla stanza vuota. Disse: “Eccolo qui!”. Si girò su se stesso con le braccia larghe; una finestra senza infissi lasciava ai raggi del sole il compito di illuminarlo come un nuovo messia. “Ecco qui cosa?” chiese Enzo grattandosi la barba, all’epoca una folta e ritta massa bruna che piaceva molto alle donne. Gianni si limitò a sistemarsi gli occhiali e a emettere un ansimo di sconcerto. “Come cosa?…Ne abbiamo parlato!”. Enzo e Gianni si guardarono perplessi. “Dai…la radio!”. “Vuoi fare una radio qui?”. Enzo si guardò attorno: non c’era niente, solo uno stanzone vuoto, l’odore di polvere e di intonaco sbriciolato. “L’affitto è bassissimo, non si arriva neanche a cinquantamila.” Gianni annuì: “Ci credo.” “Sentite, sentite…”, Richi abbracciò i due amici alle spalle, sapeva di deodorante e dopobarba, “…lì, lì in fondo ci mettiamo il salone con il giradischi, l’amplificatore e la console. Poi un tavolo per gli ospiti, proprio lì, con un microfono al centro. Qui ci mettiamo altri tavoli, sedie, e qualche scaffale. Facciamo ufficio e sala da festa.” Richi mollò la presa, si sistemò la camicia e si avviò verso le scale. “Che dite?…Andiamo a festeggiare!” propose entusiasta, senza aspettare risposte. A Enzo e Gianni non restò molto se non seguirlo in tutto e per tutto.
2019
“Questa la dedichiamo a chi c’era fin dal principio, a chi ci segue dai primi anni e non ha mai smesso. Grazie per la compagnia e la fedeltà…”. Enzo lasciò ancora salire la musica, una delle sue canzoni preferite. Night moves di Bob Seger. Era la canzone che andava in quel periodo, la hit del momento.
1976
L’avevano ascoltata chissà quante volte mentre trasportavano nel bagagliaio dell’Alfasud l’armamentario necessario per trasformare l’ambiente in una radio con tutti i crismi. Fare la scale con un tavolo tra le mani era stata davvero un’impresa; poi le sedie, gli scaffali montati da Gianni, l’impianto elettrico e le connessioni con la console studiati da Enzo e i colleghi in azienda. Ci misero tre mesetti buoni, ma il risultato, la gagliarda sistemazione dei pezzi del mosaico, soddisfaceva i tre. Soprattutto Richi, che aveva deciso buona parte del progetto anche in fase avanzata.
Ora, appena si superava l’uscio, sulla destra si trovavano i vinili catalogati per genere e ordine alfabetico degli artisti; poi scaffali di ferro dove si sistemavano giradischi di riserva e il mucchio di cavi e cuffie per eventuali ospiti. Al centro, la scrivania con la sedia di legno senza poggioli per la contabilità, di cui, lo sapeva già, se ne sarebbe occupato Enzo nei tempi morti. Ma morti morti.
Sulla sinistra il separé vetrinato e la porticina grigia che dava sullo spazio protagonista dell’opera: un tavolo con un microfono grigio lucente e, poco più in là, un piano dove erano stati messi il giradischi e l’equalizzatore. Un altro microfono cadeva ad altezza occhi, di fronte all’equalizzatore: la postazione del deejay di turno. “Ci siamo!” urlò Richi. “…Festeggiamo?”
Scesero per strada, tra il traffico a singhiozzo del primo pomeriggio. Al primo bar sport che incontrarono, sotto la scritta verticale da Ghetto, entrarono. Il bancone era un classico bancone, senza infamia e senza lode; pulito il giusto, sporco il giusto. I tavolini erano ammassati a forma di costellazioni di cui non si sapeva né il nome né il perché del nome. Un televisore senza volume faceva luce su un angolo e un juke box faceva da colonna sonora all’ambiente. “Buongiorno signori!” disse un uomo che sembrava un orso con i baffi. Era Toni Gheri, detto Ghetto.
2019
Mentre un’altra canzone si allacciava alla precedente e procedeva spedita verso il primo ritornello, Enzo si accese una sigaretta dalla finestra aperta. Aveva smesso da anni, ma per quella sera aveva acquistato un pacchetto di MS dal tabacchino di fronte. Ora era chiuso, la serranda abbassata sembrava bloccare pure la sottile foschia che stava scendendo sulla strada. Ogni tanto si faceva avanti il rumore di un motore, di una macchina che passava e andava. Enzo espirò una nuvola di fumo, guardò le due file di macchine parcheggiate a lato della carreggiata, guardò il cielo, una notte qualunque, e sbronzò.
1976
Il giorno dell’inaugurazione della radio fu una festa talmente ben riuscita che arrivò la polizia a disperdere la folla più volte durante la serata e la nottata. La prima canzone trasmessa fu Good Old Fashioned Lover Boy dei Queen, poi si andò un po’ a casaccio; le persone salivano e scendevano dallo studio, l’alcol passava di bocca in bocca senza esaurirsi mai, le sigarette costituivano l’atmosfera calda e da copertone bruciato, le canne venivano passate come giocattoli prestati volentieri agli amici. Richi era ubriaco dal principio; si era scolato una bottiglia di rosso rubata al padre per strada. Il bar di Ghetto faceva da sponda per il cibo e l’alcol: divenne in breve uno sponsor, il primo. Nella strada ricolma di chiacchiere e urla Enzo conobbe Marta, una ragazza dal vestito a fiori e gli occhi color mandorla, e Gianni Martina, guance rigogliose e risata più contagiosa della peste. Richi conobbe Miriam, Sofia, Lucia, Sara, Mara, Lina, Federica, Giulia e Giulia, Angelica, ecc. ecc.
2019
“Ero sintonizzata quando hai parlato con la Santa Matta e ho ascoltato tutta la puntata del matrimonio di Gianni e Martina…Mi mancherete tanto, mi mancherà il tuo programma…”
“Grazie Francesca. Grazie per la chiamata e l’affetto. Un forte braccio!”
“Per sempre La Seconda Serata!”
“Ciao Francesca!”
“Ciao Enzo!”
“Ora, com’è doveroso fino all’ultimo, l’ultima striscia pubblicitaria di Radio Ritmo, ma restate con noi. Fino all’ultimo, cari ascoltatori, fino alla fine!”
Anni ‘80
Da Ghetto divenne il bar del quartiere, il bar della città. Si ammassavano giovani lavoratori e vecchi cialtroni; studenti coraggiosi e impavidi venditori ambulanti. Ghetto assunse un paio di baristi in più, e una di loro, la Rosanna, divenne speaker a Radio Ritmo, per un programma nella fascia tardo pomeridiana che affrontava tematiche di geopolitica. Una cosa che appassionava molto Richi e Gianni, meno Enzo. Lui si era creato il suo spazio in seconda serata, con il programma omonimo, in cui si divertiva a parlare con ascoltatori dei vari avvenimenti della giornata appena trascorsa. Richi poi si era dato un gran da fare per trovare altra gente interessata, come i fratelli Romani nel programma di calcio, Gaio agli scherzi telefonici, Lino al programma di storia. Gianni curava la prima ora mattutina, dove mandava playlist di classici del blues e del rock. Enzo era il più bravo davanti al microfono, non ce n’era per nessuno per quanto riguardava quel suo calmo e caldo modo di parlare; e Gianni aveva senza dubbio un buon gusto per la musica. Ma il vero motore, quello che dietro le quinte teneva vispi i suoi burattini divertiti, era Richi. Aveva sempre qualcosa di stupido da dire quand’era ora di fare sul serio e qualcosa di serio da dire quand’era ora di rilassarsi. Era la guida in quell’avventura che aveva il sapore di un viaggio al contrario, dal termine verso l’origine delle loro speranze. Furono begli anni, di camicie a fiori o fiamme sbottonate, di coiti scappati via e di matrimoni. Quello di Gianni con Martina venne trasmesso in diretta la domenica del 6 giugno 1982 in una giornata soleggiata e ringalluzzita da clacson festanti. Fu record di ascolti e di presenze al bar da Ghetto, dove si tenne la cena.
2019
“Siamo arrivati alla fine…Non ho un discorso pronto, ho pensato di fare come sempre per commemorare al meglio tutti questi anni. Improvvisare e parlarvi senza tanti fronzoli di rito…ma…”. Enzo si piegò leggermente in avanti. Appoggiò le mani al piano di legno, con il dito indice grattava furiosamente un piccola increspatura della superficie. Aveva un nodo in gola che non voleva sapere di sciogliersi e un tarlo nella mente che non voleva sapere di andarsene. Fine. Fine. Fine. Fine. Fine. Fine. Fine. Fine. Fine. Fine. Fine, faceva più o meno. “…Direi che forse il modo migliore di concludere è ripetere quel vecchio e unico inizio. Per sempre Radio Ritmo, un bacio a tutti e buona fortuna…”. Partì lentamente, come lo scendere della pioggia, Good Old Fashioned Lover Boy dei Queen.
Anni ’90 e 2000
Richi morì di tumore, una cosa veloce e devastante, e il resto degli eventi fu abbastanza prevedibile. Se si toglie un motore alla Ferrari, pur rimanendo la gran carrozzeria, la sua funzione quale resterebbe?
Radio Ritmo aveva respirato i suoi fulgidi anni e la sensazione che pervadeva Enzo e Gianni, quando gli altri speaker lasciavano per un lavoro più remunerato o per la famiglia, o quando i conti cominciarono a farsi sempre più ostici e gli sponsor a ritirare il loro supporto, era quella di un vecchio cimelio esposto in vetrina. Simbolo di una gloria che aveva perso il passo, perso la sua anima e il suo motivo di esistere.
2019
Enzo prese il cappotto dall’appendiabiti, se lo mise addosso e si girò, a guardare per un’ultima volta quello stanzone in penombra trasformato dall’unione di intenti in qualcosa che desse valore davvero al termine luogo. Respirò. Recuperò le chiavi dalla tasca dei pantaloni in velluto e uscì. Chiuse a chiave, fece le scale e uscì in strada. Chiuse a chiave anche il portone. Diede un colpo per controllare che fosse effettivamente chiuso, come aveva fatto negli ultimi quarant’anni. Si incamminò nella nebbia che lasciava lampeggiare ancora qualche luce arancione. Si strinse a sé, passò davanti al vecchio bar di Ghetto, che ora era aperto e non aveva più un nome, era solo il bar dei cinesi. Dalla vetrina, Enzo notò risate compiaciute e chiacchiere a lui sconosciute. Quindi continuò a camminare.
Sul bus, una latta con bastoni in alluminio e stretti sedili di plastica, restò in piedi ad assaporare la città che gli scorreva davanti, un po’ come la sua passione, un po’ come i suoi amici, un po’ come la sua vita. Il graffito incomprensibile che sembrava un onda ritorta su se stessa sui mattoni del palazzone di via Amelia. Le macchine parcheggiate ordinate come gli scacchi in piazza Monicelli. Il museo del ‘900 bianco e affilato con luci accese al piano terra. Un giovane con i pantaloni larghi e le cuffie alle orecchie che gesticolava, come stesse provando una scena di un film.
Enzo aprì il portoncino di casa, facendo piano. Sapeva che Marta era già a letto. Se l’era sposata poco dopo Gianni; negli anni, anche se la pelle si era dilatata e allo stesso tempo raggrinzita, aveva mantenuto quel color mandorla negli occhi, e Enzo, non senza vicissitudini e figli, aveva capito che bastava.
In pigiama, si acquattò sul letto. “Ehi…” sussurrò lei ad occhi chiusi, arricciando leggermente il naso. “Ehi…”
“E’ stata una bella chiusura.”. Continuava a tenere gli occhi chiusi.
“Grazie.” Enzo si dispose per bene sotto la coperta e il lenzuolo. Un braccio tra la testa e il cuscino.
“Le chiavi le hai riconsegnate?”
“Domani andiamo io e Gianni.”
“Hai fumato?”
Nessuna risposta.
“Come stai?”
“Mmm.”
Marta allungò il braccio e strinse la mano di Enzo. Rimasero così, lei a sonnecchiare, lui a guardare il soffitto; a sentire il cuore battere, a sentire il cuore mancargli.