CHIACCHIERE DI CITTA’ – Vol. 2

LUCI E OMBRE

Il Botegon vive di luce. Piazzato sull’angolo di una strada senza sbocchi precisi, la folla si lascia attrarre come da una calamita, e il clamore di qualche bicchiere si trasforma in un entusiasmo di voci e grida, di musica sparata dalle casse e di pacche e strattoni e abbracci. Il locale stende qualche tavolo in legno ridosso la vetrina; sempre pieni dei primi fortunati e dei lungimiranti talentuosi nella prenotazione, ai restanti non resta che dividersi  tra le botti di legno e Piazzale Burchiellati, grigio e colmo di macchine fino agli orli. Il tramonto è passato, ma nonostante questo, siamo inondati di luce. I fanali delle macchine, i lampioni della strada, le vetrine del locale di fronte, e le vetrine del Botegon stesso. Beviamo una cosa, facciamo un brindisi, siamo tra noi e tra altri amici di amici trovati lì per sbaglio.

Arriva l’ora di cena, un timido gong suona nelle nostre pance riempite di spritz e birra. Ci spostiamo dalla luce, dalle voci confuse ma sicure se prese singolarmente, e ci addentriamo verso la via che costeggia Piazzale Burchiellati. Superiamo una banca e guardiamo alla nostra stella polare, il simbolo verde, lampeggiante e crociato di una farmacia, unica luce nella nostra direzione. Sembra ingannevole, sembra assurdo o un errore dettato dall’incompetenza, ma, appena sotto la stella polare, ci infiliamo nel sottopasso che troviamo alla nostra sinistra: davanti a noi si stende uno spiazzo a palazzi irregolari, tetti a tegole e tetti piatti, e sotto i tetti, sull’angolo sempre a sinistra, in una serie di luci provenienti dai tavoli e di un silenzio modesto, c’è il pub Amburgheria.

Nessun cartello a indicarlo, nessuna freccia stampata in caratteri cubitali. Il cameriere, anche gestore, una volta accolti e invitati a sederci al tavolo, ammette che non vuole vivere delle luci della ribalta, non vuole vivere di una folla di accaniti bevitori o di accaniti curiosoni. Vuole che il suo locale sia esclusivo, per pochi, gli avventori raccolti da un interrotto passaparola. Noi ascoltiamo, annuiamo convinti, scorriamo il menù proposto. Alcuni di noi ci sono già stati: “Gli hamburger sono ottimi.” “Provalo!” “La fine del mondo questa birra”. Le nostre voci rimbalzano tra i muri che ci racchiudono come in una culla dove possiamo godere della nostra intimità. Mentre mangiamo, sorseggiamo, fumiamo, gettiamo sul tavolo l’argomento della serata, il principe sul quale inchinare i nostri sforzi chiacchierecci. “Mancano le trattorie tipiche in centro a Treviso!” “Non ci sono perché siamo tutti interessati ad altro!”. La discussione divide la tavolata in due squadre che ricordano le quisquilie tra Mosca e San Pietroburgo ne “Le cronache di San Pietroburgo”. Chi aizza l’autenticità, chi giustifica la modernità. Si parla di cittadini, di cosa vogliono e non vogliono, di chi sono e di chi non sono, si parla di turisti e si parla di aeroporto. Si parla di Venezia. Si parla della gigante Venezia, che con le sue chiese e i suoi canali e la sua fama si prende tutta la luce del sole, e di Treviso, troppo vicina per non finire sotto la sua ombra.

Qualche giorno dopo, a pranzo dai miei, riporto a grandi linee la discussione che ci aveva appassionato, che ci aveva visto quasi vestire i panni di rivali agguerriti. Mio padre ascolta, e mi dice che c’è la trattoria All’Oca Bianca. Lì vige ancora l’imperativo della tradizione culinaria trevigiana. Concentro la mente sui miei ricordi, sulle mie conoscenze, pure sulla discussione all’Amburgheria, ma Oca Bianca rimane un nome annebbiato, reale e allo stesso tempo fumoso. Mia madre spiega dov’è, in una piccola viuzza laterale del Cal Maggiore.

Passano ancora due giorni e, in un lunedì soleggiato, cammino proprio per il Cal Maggiore, destinazione supermercato, e noto, non per caso, un’insegna. Aggrappata ad una colonna del portico, come un affresco e come un graffito, la scritta rossa su sfondo lucido recita Trattoria All’Oca Bianca. Seguo con lo sguardo -i passi ad inseguire gli occhi- la trattoria. In una via stretta tra le palazzine del centro, una piccola porta in legno è agghindata ai lati da due piante che straripano come un fiume in piena. Dalle grate delle finestre altre due piante cadono a forma di cascata. Vado oltre l’entrata e, attraverso i balconi spalancati sul selciato, vedo le pareti interne, di un legno scuro come di taverna, e i tavoli imbanditi di tovaglie senza ricami ricercati, di bicchieri senza decorazioni: dello stretto necessario. Giusto una coppia, lui concentrato, lei sorridente, che si gode un bicchiere di vino sopra due piatti vuoti e macchiati. Alla fine del locale una piazzetta è illuminata dai raggi del sole che sembrano dichiarare la loro supremazia.

Mi giro e guardo ancora l’Oca Bianca, viva in tutta la sua ombra.