
Capitolo 1, Episodio 2
Se preso singolarmente il palazzo si sarebbe potuto descrivere come alto e anonimo, risultava però affascinante nell’intricato panorama di persone e negozi e uffici della via. Al piano terra c’era un locale vuoto, dalla vetrina si intuivano vecchi cartonati pubblicitari con megasconti reclamizzati annegati nella polvere. Al citofono la voce di Wall sembrò quella di chiunque al citofono. “Terzo piano! Il portoncino è sulla destra, dalla laterale. Dopo l’angolo…”. Seguii le indicazioni, e presi a farmi le scale fino al pianerottolo con la porta aperta a metà, la luce come un proiettore sulla pavimentazione. La figura dinoccolata di Wall si fece avanti, ci stringemmo la mano. “Piacere, Giacomo”. “Walter!”. La stretta fu virile, il suo sorriso accennato e, all’apparenza, sincero. Aveva gli occhi scuri e un naso a forma di scoglio. “Entra, entra. Prego!”. Mi sfilai il cappotto, Wall si premurò di posarlo sull’appendino. Percorremmo il corridoio piastrellato d’arancione, e ci infilammo in cucina. “Caffè?”. Accettai. La cucina aveva mobili di legno non troppo vecchi. Una portafinestra dava su un terrazzino dove erano sistemati i bidoni dell’immondizia. Mentre Wall armeggiava con gli sportelli e poi la moka, ci raccontammo al volo le nostre vite. Saltai la parte delle grandi conquiste dell’infanzia e i bravissimo delle elementari, la ribellione adolescenziale e le toccatine alle ragazze nei bagni del liceo, quindi non ci misi molto a dirgli cosa aveva fatto fino a quel momento. E lui pure. Avevo studiato cinema, lui era un chitarrista. Lui stava frequentando la specializzazione di ingegneria, io di certe materie non volevo sapere proprio nulla. Entrambi avevamo una passione per il basket. Tra un sorso e l’altro di caffè, ci fumammo una sigaretta. Come posacenere usammo una ciotola su cui era disegnato un seno stilizzato. “Ci vai mai a giocare al campetto di via Restucci?” chiese lui, e sbronzò. “Ci sono stato qualche volta, gli anni scorsi. C’è sempre movimento”. “Infatti. È comodo per quello”.
Finita la sigaretta, facemmo il giro della casa. Il soggiorno aveva un’ampia libreria piena di ciarpame e libri universitari logori sui bordi. Un divano sbilenco aveva davanti a sé un tavolino quadrato di vetro con sopra tabacco naufrago e un posacenere pieno di mozziconi. Il bagno, tra le due camere, era spazioso, le pareti blu e bianche. I sanitari erano anch’essi bianchi, il box doccia aveva una tenda beige. In camera di Wall capeggiava il poster di David Robinson, una stella Nba anni ’90. “E’ il mio giocatore preferito”. “Non male” dissi. In realtà lo odiavo. Il letto era sfatto ma nel complesso c’era un ordine forse non riuscito, ma tentato: i vestiti erano ben piegati e sparsi tra l’armadio e un lungo appendino vicino alla scrivania, il cui piano era colmo di penne e quaderni e libri. Un pallone di basket impolverato stava sotto una sedia; una chitarra classica era appoggiata all’angolo, sotto una mensola che sosteneva coste di altri libri. La camera che sarebbe potuta passare a me era scarna, un armadio bianco e una rete, una scrivania di legno chiaro e una sedia. La finestra dava su un parcheggio e su un grattacielo vetrato. Mi piaceva. “Devo dirti la verità, dopo passa un amico -è un vecchio compagno di facoltà- e potrebbe essere che se la prenda lui. Non è sicuro…però sai, te lo dico”. Ci rimasi male ovviamente, come sempre quando si nutre un minimo di speranza. “Non preoccuparti, fammi sapere quando sei sicuro”. “Certo, anche lui deve capirsi con delle cose, quindi”. Riguardai la camera con gli occhi di un addio e uscimmo in corridoio. “Ultima cosa. Qui ci sarebbe lo sgabuzzino, cioè, c’è lo sgabuzzino…”. La porta di fianco alla sua camera. “…Ma ci abbiamo messo anche la televisione e la play.”. Le scope e il mocio erano messi di sbieco, lo schermo della televisione raccoglieva tutta l’attenzione. Wall mi fece vedere anche le due sedie pieghevoli. “Come mai non è in salotto?”. “Marco, il vecchio coinquilino, non voleva avercela sempre a portata di mano. Per paura di distrarsi. Abbiamo fatto una postazione…forse la metto in salotto, però non so, mi sono abituato a giocarci qui”. “Non sembra male, in realtà”. E questa volta fui sincero. Ci salutammo con la promessa di essere tempestivi e corretti con qualsiasi comunicazione.
Quando tornai al bed & breakfast ero diviso tra una minima speranza e la sensazione di fallimento imminente, sensazione che a dirla tutta mi accompagnava un po’ ovunque. Lo sapevo bene che non avrei avuto colpe se una conoscenza del sostanziale padrone di casa si fosse impossessata della camera, ma io volevo quella camera. E, per l’appunto, non l’avrei avuta: il risultato non sarebbe cambiato. Stetti qualche minuto disteso a letto ma non riuscivo a distrarmi. L’idea mi venne forse perché ne avevamo parlato: il campetto di via Restucci. Due tiri, per sfogare lo stress. Il pallone non lo avevo, ma figurarsi se non ce n’era qualcuno di inutilizzato direttamente lì. Mi infilai, pieno di energie, le scarpe sportive.