
Sono le 5 e venti di mattina ma è piena estate, il cielo già schiarisce, i motori delle macchine non sono ingolfati dal freddo e si sentono sfrecciare lungo la strada. Faccio colazione, una cosa veloce, qualche biscotto e un caffè, poi parto per il magazzino dove ho trovato un lavoretto estivo. Per pagarmi qualche desiderio radicato nella mia esperienza di universitario della generazione Erasmus: un viaggio, un paio di jeans, molti pacchetti di sigarette, una cena fuori in più.
La macchina sulla quale viaggio è la precedente di mio padre, una station wagon economica carica di chilometri e -in passato- di tessuti da vendere ad incalliti e dubbiosi tappezzieri. Almeno, a vedere le fatiche di mio padre, me li sono immaginati sempre molto dubbiosi i tappezzieri. Cerco di trovare la giusta stazione radio, una canzone che mi sollevi i pensieri dall’odioso compito delle prossime sei ore. Rallento -tanto sono puntuale- e premo il pulsante del cambio canale con ossessione; Una canzone decente! impreco, mentre il cielo si fa sempre più azzurro e la strada libera sembra un imbuto scivoloso verso i miei obblighi non richiesti.
La struttura della fabbrica si nota da lontano; è stata disegnata da un certo Scarpa, un certo architetto dalle certe doti di architetto. Si vedono piloni verde Benetton tenuti insieme da delle specie di ragnatele di tiranti. Mi fermo davanti alla sbarra d’accesso. Mostro il cartellino da timbrare al guardiano, lui alza la mano, si alza la sbarra, saluto e sbuffo accelerando. Dallo specchietto noto i miei occhi gonfi e blu, come pestati dal sonno privato. Il parcheggio è a più piani, assomiglia ai lugubri parcheggi dei film; come formiche anestetizzate, gli operai escono dalla penombra in pantaloni della tuta lunga e maglietta amica del sudore. Chiudo la macchina e mi unisco alla processione, supero una struttura simile ad un faro la cui utilità mi è sconosciuta. Attraversiamo come fantasmi la strada destinata al passaggio dei camion e ci infiliamo su uno dei magazzini che si distendono sotto gli alti piloni verdi. Ci ritroviamo su uno spazio di cui si intuisce la fine ma non si vede, e fino a quell’orizzonte le luci al neon del soffitto illuminano depositi in acciaio movibili pieni di abbigliamento vario. Sulla destra, una lunga linea che si muove con una snervante e costante velocità, e gli operai del turno prima, quello della notte, che mettono sulla linea i capi d’abbigliamento. L’odore è ferroso, i rumori sono gli allarmi di retromarcia dei muletti. Saluto un paio di colleghi, timbro, il bip di conferma e mi fiondo alla macchinetta del caffè. Arriva il capoturno, ci ammassiamo attorno. Abbiamo due speranze, e non so mai quale delle due scegliere: o spaccare scatoloni pieni di vestiti da ammassare sui tavoli, o stare alla linea, ovvero prendere ogni singolo capo sul tavolo e metterlo sulla linea, a ripetizione, per sei ore. Cosa preferisco tra la fatica e la noia? “Beraldo, oggi è in postazione B”. Vuol dire scatoloni, vuol dire fatica. Finisco il caffè, e ringrazio il capoturno senza sorridere.
Una sirena annuncia la fine del turno precedente, gli operai mollano le postazioni come grilli. La felicità è evidente, è sullo zampettare veloce, sui sorrisi che si risvegliano, sulla fine di un incubo durato tutta la notte. Inizia il nostro turno. A spaccare scatoloni si è sempre in due, e con me c’è Asheed, un ragazzo moro dai lineamenti del viso morbidi. Viene dallo Sri Lanka, e tifa Inter come me. Abbiamo legato subito, grazie alla domanda che anticipa tutte le domande, ovvero qual è la squadra del cuore: si crea una sorta di sintonia, un legame dato dai sentimenti di delusione e di gioia in sincrono del passato prossimo e remoto. Asheed si lamenta, e taglia gli scatoloni con il taglierino; io gli dico che ha ragione a lamentarsi e taglio gli scatoloni con il taglierino. C’è un metodo preciso per rompere gli scatoloni, una sorta di manuale pratico che fa risparmiare tempo, dato che è l’ottimizzazione del tempo il vero scopo del nostro lavoro. Il metodo prevede una forte spinta dello scatolone da sopra il tavolo, in modo tale che, data l’azione d’indebolimento del taglierino sullo scotch, gli indumenti crollino come una valanga sul piano, e lo scatolone svuotato possa essere piegato in un secondo e gettato nello spazio dedicato agli scatoloni da gettare. A prendere le magliette, o le mutande, o i jeans, e metterli nella linea in corsa, c’è Mirko. Mirko è un omone serio, con pochi capelli che cerca di sistemare in una posa alla moda. Non parla molto, ma so che è un pittore a cui gli affari vanno male da un po’. Dice che ormai nessuno spende più per ripitturare casa: si preferisce arrangiarsi, fare un lavoro di scarso livello, e amen. Dice che ogni tanto ha ancora qualche chiamata, e viene qui per poter contare su una base decente di denaro. Ha un cane a cui tiene molto, un pastore tedesco o qualcosa comunque di taglia grande. In silenzio e con la faccia seria, quasi scontrosa, prende ogni articolo incellofanato e lo posiziona sulla linea. La linea fa un giro lungo, va oltre la nostra postazione, raggiunge la seconda postazione di smistamento, poi corre, corre e corre. A guardarla fa venire il mal di testa perché sembra ferma e sembra in corsa. Sopra, gli articoli viaggiano, fanno una sorta di U da pista di Formula Uno, e scendono come goccioloni di pioggia su vari cassoni posti ai lati della linea, che riprende quindi il giro. I cassoni vengono etichettati e chiusi e posizionati in un’altra zona da altri addetti, e tra questi addetti c’è Cissé. Cissé è un nero con le treccine dread e il tono di voce di un prete gospel. Non è molto alto, cammina dondolando e annunciando che è stato velocissimo con i cassoni. Lo dice sorridendo. Dato che è velocissimo, va spesso alla macchinetta del caffè. Il capoturno gli ripete ogni giorno che sbaglia ad attaccare molte etichette, ed è per questo che è veloce. Lui ride, e beve il caffè e dice che è velocissimo ed è quello l’importante. L’atteggiamento sopra le righe di Cissé fa ridere un po’ tutti, anche il capoturno, ma Cissé si quieta, si silenzia quasi del tutto, quando passa per la nostra zona il capo del magazzino, un certo Pozzobon. Pozzobon è un uomo pelato e con il mento in fuori, forse perché è davvero fatto così, forse perché gli piace tenerlo in fuori. Ha un cipiglio mussoliniano, e tutti mantengono una certa reverenza e antipatia verso di lui. Al colloquio -una formalità, più che altro una spiegazione degli spazi e di come si rompono gli scatoloni- è stato in piedi per tutto il tempo e ha mantenuto le braccia piegate e poggiate al bacino, il petto in fuori. Ha detto che lavorare qui non è male perché c’è l’aria condizionata d’estate e il riscaldamento d’inverno, e non è così scontato in tutti i posti. Sono davvero fortunato -ho pensato io- ora dimmi che avete installato i bagni per pisciare e benvenuto paradiso!
La parte più estenuante del turno arriva quando arrivano i giubbotti. Non perché siano dei capi di per sé estenuanti, è solo una questione fisicomatematica delle più semplici. In uno scatolone ci stanno pochi giubbotti -sei, contro, cinquanta cento magliette- ma la linea -che va sempre alla stessa infernale velocità- deve trasportare più o meno la stessa quantità di capi. Quindi chi carica i tavoli deve triplicare la velocità d’esecuzione, con il terrore di ritrovarsi con il tavolo vuoto, il collega della linea senza nessun capo da spostare dal tavolo alla linea stessa, e il rimprovero, prima dolce del capoturno, poi militaresco di Pozzobon. A dare una mano a me e Asheed, visto che il suo tavolo è ben caricato di leggere e strette mutande, arriva Arin. Arin è un kosovaro riccioluto, con il sorriso che assomiglia al tipico ghigno da pistolero dei balcani. Si impegna sempre molto nel lavoro, e uno dei primi giorni ha detto che il suo obiettivo principale è quello di prendere la patente del muletto. Nell’ambiente dei magazzini la patente del muletto -ha spiegato Arin- vale quanto l’altezza tra i giocatori di basket. Non è indispensabile, ma dà una gran mano. Un altro obiettivo di Arin è ottenere il contratto indeterminato e comprarsi un’auto, una specie di bestia sportiva luccicante di cui dimentico sempre il marchio e la cui foto ricorda il rumore di un rombo fuggente. Finito con i giubbotti, ci alterniamo per andare in pausa. La pausa si passa in bagno, bagni installati non solo per pisciare e disposti alla fine del magazzino. Si dividono in bagni per uomini e bagni per donne, ma in quelli delle donne ci vanno lo stesso gli uomini perché, in quel preciso magazzino, non ci sono donne. Chiuso in delle pareti più simili a quelle provvisorie dei wc chimici, mi accendo la sigaretta e spio dalla grata le ruote e i rimorchi sporchi dei camion passare via. In bagno si fuma esattamente come alle superiori. Tra i regolamenti-comandamenti di Pozzobon c’è l’obbligo di indossare i pantaloni lunghi anche in estate -forse è per questo che hanno messo il condizionatore- e il veto totale sul fumo, anche all’esterno. Quindi tutti, ma davvero tutti, fumano in bagno. Ovviamente l’odore che ne scaturisce non lascia spazio a dubbi. Pozzobon sa benissimo che il suo comandamento sul fumo non è rispettato, ma a lui evidentemente interessa che, per espletare l’insano vizio, ci si nasconda. I perché, e sono convinto ce ne siano, sono da chiedere a lui.
La mattinata, dopo il paio di sigarette fumate in pausa e il superamento dello stress da giubbotti, scivola via tra battute sull’Inter e sulla Juve, e prese in giro e leggende riguardanti i superiori, dai capiturno ai manager di alto livello della società. Quando s’intravede vicino alle macchinette la massa di occhi tristi pronti al turno successivo, i nostri di occhi si fanno luccicanti, la patina della felicità di un laureato il giorno della laurea. Pure Mirko chiacchiera, e Asheed si lascia andare a cosa farà dopo il turno: una cena romantica e poi cinema all’aperto con la ragazza. Tra i suoi sogni c’è quello di trasferirsi con lei a Londra, magari in un appartamento tutto loro. La sirena suona con la stessa liberazione dei fuochi di Capodanno, molliamo ciò che abbiamo in mano, e ci indirizziamo senza dubbi o sensi di colpa all’uscita. Stringiamo la faccia e gli occhi perché il sole ci inonda e non siamo abituati a tutta quella luce. Mettiamo una mano a mo’ di visiera, e continuiamo a camminare verso il parcheggio. Appena riaccendo la macchina, la radio lascia andare una canzone piacevole, magari non un capolavoro, ma va bene, la canticchio soddisfatto. Penso a cosa farò stasera, a dove portare a cena mia morosa. Seguo la stessa strada dei camion, la fabbrica ai lati fino all’uscita…
E poi, dopo cena, perché no, cinemino all’aperto.