
Il sole se ne stava fiero in cima al cielo. Il mare brillava e le onde ne determinavano l’intensità. Un gruppetto di ragazzini, uno con il costume rosso, si muoveva estatico nell’acqua. Si passavano una palla, ogni tanto uno decideva di chiudere la sessione con una schiacciata indirizzata alla schiena degli altri tre compagni. Sulla sinistra, apparendo e scomparendo dal telaio della porta in penombra, una linea di barche bianche attraccate. E poi la spiaggia, una fetta di spiaggia asserragliata di qualche chiacchiera e di ombrelloni a righe gialle e blu, i contorni appena sbattuti dal venticello. Questo vedeva Alberto da dove era seduto. Aveva deciso di farsi una birra al bar oltre la strada, l’entrata raggiungibile solo dalla scalinata esterna di legno bianca, e su fino al secondo piano, incontrando tra un gradino e l’altro finestroni scuri coperti da scatoloni sfondati. Una volta c’era una fabbrica di tessuti, gli avevano detto. Adesso lo spazio era vuoto, se si escludeva il bar di Teo, il Carruba.
Lo sapeva bene Alberto, che i primi due piani erano vuoti. Erano mesi che la sua azienda aveva deciso di acquistare lo stabile, comprensivo del bar all’ultimo piano. La missione di Alberto era lavorare sul prezzo e convincere Teo a vendere. In un mese e mezzo, ero riuscito bene nel primo obiettivo, per nulla nel secondo. Teo, un uomo con i capelli lanuginosi ai lati, la barba fitta di due giorni fino al collo, e una forma della testa alla Stewie dei Griffin, era il barista storico del litorale, un’istituzione e una garanzia, e aveva tutta l’intenzione di vivere fino ai suoi ultimi giorni nel bar. “Ti dirò di più”, aveva annunciato ad Alberto in una delle svariate retate di convincimento, “Ci voglio morire qui dentro, altro che vivere.” Alberto aveva mollato l’osso una settimana fa. Dato l’ottimo prezzo che aveva concordato con il Comune per il resto dello stabile, l’azienda non aveva fatto pressioni sulla mancata messa in vendita del locale. Bevve un sorso di birra, se lo tenne qualche secondo in bocca, ne gustò il sapore fresco e amarognolo. Aveva passato il weekend lì per delle firme, sarebbe ripartito il pomeriggio stesso. Mancava poco al grande giorno. Ancora due settimane. Non ci credeva. Lui sposato. Sorrise, e travasò un po’ di birra dalla bottiglia di vetro umida al bicchiere. Non tutta la birra, ne lasciò un dito. Il televisore all’angolo trasmetteva un documentario sulle meduse. C’era tanto blu e movimenti armoniosi. Pensare a Chiara, alla sua fidanzata da ormai tre anni, lo gettava in uno stato che ricordava quegli animali: tranquillo, impassibile, privo di immaginari pericoli. Svuotò il bicchiere, la schiuma a dare un tocco di vissuto. Era contento, e non vedeva l’ora di stare lì, a guardarla, a dire sì, a raccontare nel modo più modesto e insieme unico possibile quanto l’amasse. Teo lo osservò mentre sistemava i bicchieri nello scomparto della lavastoviglie, e sorrise di riflesso al suo sorriso.
Appena entrato, furono gli stivali in pelle ad attirare l’attenzione, il tipico stridore accattivante sul pavimento di legno. Alberto alzò la testa così tanto per fare, per riempire il suo momento d’attesa. L’uomo, tonico nonostante la mezza età, aveva i capelli scompigliati e la carnagione abbronzata. Oltre agli stivali di pelle, indossava un giubbotto nero e i jeans aderenti: sembrava lo stereotipo o la caricatura di un cowboy moderno. Il cavallo era con ogni probabilità una motocicletta, dato il casco penzolante stretto alla mano destra. Si sedette al banco, di fianco ad Alberto. “Buongiorno” disse. Lo disse con gentilezza, non con il fare da duro dei film di cowboy. Teo rispose con un cenno del capo. “Le servo qualcosa?”. L’uomo si accigliò, poggiò il casco alla base dello sgabello affusolato. “Mi faccia…”, e tamburellò le dita sul piano, “…mi dia un birra, grazie”. Teo si avvicinò alla spina, “Bionda, media?” chiese. L’uomo sorrise e annuì.
Si guardò attorno, Alberto ne seguì lo sguardo. La zona in ombra dei tavoli ospitava una coppia di amici anziani presi da una discussione sugli apparecchi auricolari, e un giovane con una lunga fila di orecchini concentrato sul cellulare e a tratti su una Coca Cola in bottiglia di vetro. L’uomo tamburellò ancora le mani. Alberto sospirò: al vedere la birra servita, il languore si fece sentire sotto la lingua, e allora chiese a Teo un’altra birra in bottiglia. “Un buon modo di passare i pomeriggi assolati” dichiarò l’uomo, alzando il bicchiere a mo’ di brindisi. Appena ricevuta la birra e un nuovo bicchiere, Alberto se ne versò una buona metà; fece lo stesso gesto e rispose: “Può dirlo forte”. L’uomo bevve un buon sorso, poi domandò: “Lei è di qui?”. Alberto: “No, no. Sono qui per lavoro.”
“Cosa fa?”
“Mi occupo di acquisizioni.”
“Sembra importante.”
“E noioso.” Alberto bevve, e poggiò il bicchiere, lo fece ruotare appena su stesso.
“Non le piace?”
“Ah, non sempre…ma non è neanche così terribile, a dir la verità.”
Calò il silenzio. Si sentivano i rumori di Teo nel magazzino oltre la destra del bancone, spostava qualcosa da uno scaffale all’altro. Alberto, per una sorta di credenza educativa, chiese: “E lei? Qui per vacanza o…?”. L’uomo sorrise sornione alla parete. “Diciamo che…”. Il viso si contrasse, gli occhi cercavano parole. “Ho mollato da poco il lavoro, ero responsabile della sicurezza in un’azienda a qualche ora da qui. Ad Arbino, non so se ha presente…”. Alberto annuì, aveva già sentito nominare il paese, un centro industriale importante. Le parole gli uscirono istintive, un sussurro che incarnava la morbosità per i pettegolezzi: “E adesso?”. L’uomo si grattò una guancia. “Ho anche divorziato, il mese scorso. E ho deciso di staccare un po’ da tutto. Per qualche mese”. “Oh, mi dispiace”. L’uomo fissò Alberto, tornò di nuovo il sorriso sornione, soddisfatto. “Le dispiace? Non si dispiaccia. Mi creda, è la scelta migliore che abbia mai fatto in vita mia. Basta con il lavoro, i figli sono abbastanza grandi e mia moglie…”. La pubblicità alla televisione prese il sopravvento per pochi secondi. “Con mia moglie era da tempo che la tiravamo avanti per niente”. La perentorietà del tono non lascio spazio ad alcuna risposta. Bevvero ancora la birra. “Ora mi godo la moto. La libertà di andare ovunque, e a fine anno vediamo”. Alberto annuì. Il sole aveva cominciato di pochi gradi la sua discesa. Sfilò il cellulare dal taschino della camicia, guardò l’ora. “Lei è sposato?” si sentì chiedere. Alberto accigliò gli occhi, con un fare amichevole rispose: “Veramente…mi sposo tra due settimane.” “Davvero? Oh.” Alberto rise, si alzò in piedi. Pagò entrambe le birre a Teo, che era appena ricomparso con il viso arrossato dal leggero sforzo. “Oh, no. Non serve, non…”. “Lasci davvero. Per festeggiare il mio matrimonio…e la sua libertà.” L’uomo annuì, e allora prese il bicchiere e lo alzò nuovamente. “Cin!”, e diede un’altra lunga sorsata. Ne lasciò un dito abbondante. “Arrivederci, buona fortuna.” “Buona fortuna a lei e alla sposa.”
Alberto si fece spazio con i bagagli in stazione, si ritrovò a fissare il tabellone degli orari tra i passi veloci degli altri pendolari. E mentre l’uomo, ripartito sulla sua motocicletta, si mise a piangere di tristezza sotto al casco, per la libertà che gli si palesava davanti, quella distesa di mare e costiera rugosa dalle infinite possibilità, ad Alberto, fermo nell’androne e pronto a capire a qualche binario dirigersi, prese un fastidio nervoso, una rabbia silente nel constatare l’inutilità del vaglio di possibili altre destinazioni.