SULLE MAREE

Speravo di stare a casa dal lavoro; la sera di mercoledì, mentre il vento si faceva sentire dalla porta finestra della mia camera come fosse una guerra, avevo ricevuto il messaggio da un collega che sentenziava: la sede di lavoro domani rimarrà chiusa. Il primo pensiero è stato quello di poter dormire qualche minuto in più. Allora ho chiamato il responsabile che, confuso, non sapeva se confermare la mia assenza o meno; quindi ha tergiversato un po’, facendo ipotesi sull’indomani, e ha concluso che sarei dovuto andare, per presidiare il complesso di uffici racchiusi nella struttura storica vicino a San Marco.

Non avrei dormito qualche minuto in più.

Intanto il vento sbatteva gli scuri del terrazzino, e urlava; le previsioni per la notte si facevano sempre più preoccupanti. Voci di corridoio, non il vento ma il mio coinquilino, accennavano a 190 cm di acqua alta. Ci ho messo un po’ a prendere sonno, data la leggera agitazione che avevo in corpo.

Giovedì mattina mi sono svegliato, vestito e sono partito; il tutto davvero in un paio di minuti, aggiungendoci una sciacquata al viso e ai denti. Sulla calle sotto casa spuntavano detriti qua e là, dalle alghe a barattoli vuoti. L’acqua stava già risalendo senza chiedere permesso; erano le sette e quaranta e la massima era prevista per le dieci e venti. Arrivato ad un campo, ramaglie e sacchi d’immondizia venivano trasportati ancora dal vento, che se non altro aveva un atteggiamento più amichevole della notte passata; alcuni negozi sputavano fuori acqua dalle pompe, si tentava di salvare il salvabile; i lavoratori mattinieri si bloccavano oltre l’angolo e tornavano indietro, probabilmente intimoriti dal livello della marea. Mi sono messo dei copri-scarpe trasparenti e ho continuato verso la mia destinazione. Camminavo immerso fino a metà polpaccio. Oltre le vetrine si vedevano i prodotti galleggiare, scarpe, libri, farmaci, qualunque cosa fosse venduta nelle quattro mura che incontravo di passaggio. I ponti li attraversavo senza godermeli, di fretta, preoccupato per quello che avrei dovuto affrontare; gli unici rumori in lontananza erano gli scrosci dei passi allagati. Il momento di crisi è arrivato poco prima di svoltare a destra, sull’ultima calle. L’acqua sfiorava il ginocchio e ho iniziato ad andare adagio, in punta di piedi, tentando di provocare con le gambe il minor moto ondoso possibile. Davanti al portone in legno ho tirato un sospiro di sollievo. Ho preso la chiave e ho aperto. Le luci dell’atrio erano spente. Davanti a me, una quindicina di uomini erano indaffarati a spostare, illuminare tramite torce, pulire; si muovevano di scatto, febbrili. Ho scavalcato le paratie, quei pezzi d’acciaio incastrati tra gli stipiti che proteggono dalle inondazioni, e sono fiondato alla mia postazione. Una delle luci dello stanzino funzionava, quindi, nella penombra, ho appoggiato le mie cose e ho preso a rispondere a qualche chiamata: il telefono squillava senza sosta, la lucina intermittente delle chiamata balzava all’occhio con un’insistenza tale da dare su i nervi.

“Siete aperti oggi?”

“No.”

“Sarete aperti domani?”

“Ancora non si sa.”

“Sarete aperti sabato?”

“Ancora non si sa.”

Sarete aperti, sarete aperti, sarete aperti, sarete aperti. Non lo sapevo, attendevo istruzioni.

Dopo aver dato qualche informazione vaga, sono ritornato nell’atrio, sede della libreria. Gli scatoloni, ammassati in entrambi i lati della porta che da sul magazzino, avevano i bordi sfondati e neri marcescenti; molte cose erano da buttare, alcune da salvare. Si doveva fare la cernita.

Gli elettricisti vagavano da un quadro elettrico all’altro, cercando di sistemare le cose. Gli ascensori erano bloccati al primo piano: al piano terra i vani erano allagati. Le donne delle pulizie passavano con il mocio e raccoglievano quanto più sudiciume possibile, che poi strizzavano nei secchi. Acqua, acqua, sempre acqua, marrone chiaro, dall’odore acre, che fa storcere il naso, la bocca, il volto. I secchi, come fossero dei diffusori d’essenza per la casa, erano posizionati in più punti strategici tra il corridoio lungo, alto e buio, e l’atrio. In fondo al corridoio, al bar, si aspirava il liquido che fuoriusciva da ogni anfratto: bagni, fosse biologiche, buchi nuovi e vecchi. Il personale tirava fuori dalle porte della cucina i frigoriferi e i forni mal messi, impossibili da recuperare.

“Serve qualcosa?” chiedevo. In queste situazioni non mi sento mai di grande aiuto, non sono mai stato un tipo pratico, però potevo recuperare i vari aggeggi indispensabili, come scotch, scale, chiavi, riduttori; salivo per i piani del palazzo alla ricerca di qualsiasi cosa mi venisse richiesta. Su e giù, su e giù, su e giù.

La marea aveva raggiunto di nuovo il picco massimo e, seppur non superasse le protezioni, la calle era diventata ancora una volta un canale. Le infiltrazioni avevano ripreso la loro subdola corsa sulla pavimentazione, quindi ancora ad aspirare, ancora ad asciugare con il mocio. Sempre gli stessi punti, sempre con la stessa insistenza.

Io andavo su e giù. E rispondevo al telefono: “Aperti oggi?” “No” “Domani?” “Non lo so” “Sabato?” “Non lo so”. Le istruzioni si sarebbero fatte attendere.

I trasportatori si sono messi a fumare una sigaretta durante una pausa. Dividevano gli sguardi tra la calle immersa e deformata dalle onde, e il cielo, che era diventato una sorta di appoggio, di porto sicuro: era sempre quello, grigio e fermo.

Quando le calli sono tornate accessibili, ho preso la strada del ritorno. I negozi, come sette ore prima, sputavano acqua, e accatastati vicino ai muri, si raccoglievano sacchi neri con dentro tutto quello da buttare. La città era invasa da sacchi neri e secchi. Sul litorale, i sottili alberi che abbellivano l’ambiente erano inclinati, alcuni spezzati, altri spariti; i muri dei palazzi scrostati e la crosta, l’intonaco, sparpagliato nella via. Da dentro i portoni, la gente si muoveva ancora, a pulire, spostare, o andare su e giù. Fuori le facce si guardavano stanche e incredule, alcune atterrite.

Di sicuro ci saranno state lacrime ma quel che vedevo io, ovunque, era tanto sudore.

Chiuso il portoncino di casa, mi sono disteso a letto e ho preso a massaggiarmi le tempie con le dita. Avrei voluto dormire un’oretta ma l’incubo a occhi aperti era finito, almeno in camera mia, al quarto piano di un condominio nella zona alta della città.

Mi sono alzato e ho messo su un caffè.