UNA GIORNATA DA DIMENTICARE NON DIMENTICATA

In tarda notte mi ero ritrovato sul letto ancora in preda alle incertezze. Il soffitto vuoto, senza alcuna nozione utile, era il riflesso della mia preparazione e della mancata risposta alla domanda che mi tartassava dal giorno precedente: “Presentarmi o no, all’esame di storia di strumenti musicali?”.

Il libro, un tomo da 660 pagine di un certo Sachs, massimo esperto in fatto di invenzione e costruzione degli strumenti musicali antichi e moderni, era rimasto nello zaino per buona parte delle giornate, quelle giornate bagnate dal sole di giugno. Pomeriggi lunghi, eterni; serate calde e piene di divertenti suggerimenti. Avevo provato a sfogliarlo, ma avevo sì e no letto l’introduzione. Oltre al libro, il programma prevedeva gli appunti della professoressa presi a lezione, dove, ovviamente, aveva snocciolato qualche segreto per garantire ai soli frequentanti reali un premio per la fatica di alzarsi ogni mattina e recarsi a Venezia, nell’aula larga e leggermente scrostata vicino alla sede di San Sebastiano. Io, quella fatica, la feci due volte. Alla prima lezione, durante la quale la professoressa ci fece notare come anche il nostro corpo possa essere considerato uno strumento musicale: basta battere contro la cassa toracica mentre si emette un suono e notarne il cambiamento garantito dalle vibrazioni. E alla seconda lezione, durante la quale la professoressa ci suonò qualche “pezzo” con una cetra medioevale.

Non mi presentai più, preso da frivolezze come le bevute tra amici, o la voglia di incontrare ragazze, o il piacere di fumare una sigaretta dietro l’altra stando seduti sulla riva delle Zattere a guardare il sole sbattere con energia sui tetti bianchi dei vaporetti. Ero uno studente distratto, poco avvezzo ad aprire gli orizzonti dei miei interessi. In realtà anche la professoressa, magra e con gli occhi scuri di un’aquila, vestita come se dovesse andare a dormire ma con capi delle grandi boutique, non mi aveva fatto una bella impressione. Questo non sarebbe dovuto ricadere sulle lezioni e, soprattutto, sulle nozioni di quelle lezioni, ma, oltre ad essere distratto e poco avvezzo, ero anche difficile da conquistare.

Al sorgere del sole decisi, con gli occhi gonfi e i muscoli attivi dal nervosismo, di andare lo stesso. Non era il primo esame orale a cui mi sarei presentato senza grandi pretese -senza alcuna pretesa- e senza una grande preparazione -senza alcuna preparazione- e a molti di quegli orali, alla fine, tra una confezione raffazzonata di concetti raccolti durante l’attesa e qualche osservazione estemporanea dal carattere diversivo (più che immersivo), me l’ero cavata con dei 25 su 30 conditi dalla perplessità dello stesso professore sul voto rifilatomi.

Quella giornata aveva un sapore diverso, leggermente teso, perché l’Italia nel primo pomeriggio si sarebbe giocata la qualificazione al girone dei Mondiali del Sudafrica. La decisione di non vedere la partita -gli smartphone non erano ancora tanto diffusi e gli studenti da interrogare avrebbero tenuto la professoressa occupata sicuramente fino al pomeriggio inoltrato- era stata difficile, quasi sofferente, ma un tentativo, sia per dare qualche soddisfazione ai miei genitori, sia per togliermi dai piedi un altro ostacolo alla tanta agognata laurea, andava fatto. Pessimo studente, ma non stupido mi dissi, mentre salivo in treno, pronto con gli occhi e le gambe ad accaparrarmi un posto e, libro di Sachs da 660 pagine in grembo, tentare di capirci qualcosa.

Più mi avvicinavo alla sede dell’esame, più incontravo compagni di corso con cui ripassare ardentemente. Molti dichiaravano di non sapere niente, ma bastava poco a constatare che a non sapere davvero niente eravamo pochi, i soliti due o tre. Cercavo di imprimere nella mente, tra un passo e l’altro, la differenza tra la lira e la cetra, i passaggi tecnici dal clavicembalo al pianoforte, le varie arpe esistite nei secoli, la struttura di uno strano strumento composto da un solo bastone e da una corda tesa a ridosso. Non mi ricordavo niente, confondevo la lira con la cetra, del pianoforte avrei saputo ripetere giusto il discorso sui martelletti, e delle arpe confondevo i nomi. Fumavo, intanto; fumavo per spazzare via la sensazione di non avere affinità con la materia. Con questa serie di concetti meccanici e mnemonici, con le loro applicazioni nella mia vita di non musicista. Sospiravo, perché quello sì che lo sapevo fare bene.

Arrivammo alla sede di San Basilio. Le aule erano state ricavate in due magazzini di vecchio stampo restaurati. Entrambi di quattro piani, con dei corridoi open air a collegarli e a collegare le aule. Il sole era alto e bagnava la riva, dove era parcheggiata qualche nave dalla carenatura istituzionale. Vicino, in un caseggiato lungo dirimpetto ai magazzini, avevano sede gli uffici della guardia di finanza. Il capannello di esaminanti di storia degli strumenti musicali era ammassato all’ombra di una porta del terzo piano e si allungava fino a metà di uno dei corridoi di raccordo degli stabili. Girava voce che la professoressa ci avrebbe sentito tutti, non le importava quanto le sarebbe voluto. Mi misi comodo: l’entrata non seguiva ordini alfabetici o di iscrizione, e non avevo alcuna intenzione di togliermi subito il dente, conscio del dolore di una sicura bocciatura. Continuai a ripassare. Più ascoltavo chi aveva studiato, più scoprivo ci fossero nuovi aspetti da conoscere. Sarebbe stato meglio -per rasserenarsi- origliare il ripasso di uno studente del mio stesso tenore, ma quelli come me si notavano subito: domandavano e imprecavano, e ascoltavano con disperazione, e scrivevano con furia qualche frase da ripetere a pappagallo, sperando nella salvezza del caso. Le pause caffè si mischiarono a quelle del pranzo.

La partita cominciò che eravamo ancora un bel numero in attesa. Qualcuno era uscito festante dalla porta; le mani sul volto, gli sbuffi di fine agonia, le parole incredule di chi poco prima sosteneva di non sapere proprio niente: “Anche la lode…anche la lode!”. Dalla finestra di un salone della guardia di finanza cominciarono a sentirsi vocioni d’intesa e la telecronaca della partita sparata da un televisore, di cui, dalla nostra postazione innalzata, si intuivano i lampi di luce nella penombra. Io e altri due, stanchi di ripetere mentalmente le stesse cose da ore, scendemmo e, con la nonchalance del fumatore che deve solo fumare, ci avvicinammo al finestrone al pian terreno. Il nostro interesse per la partita venne premiato; uno dei finanzieri -tutti mori e tutti in divisa e tutti con una birra in bottiglia nella mano- si accorse di noi, ci chiamò e ci disse che, se avessimo voluto, ci saremmo potuti unire: bastava fare il giro del palazzo ed entrare da un giardinetto al lato opposto. Accettammo l’invito.

Le luci della stanza erano smorzate, le azioni rimpallate sullo schermo dovevano essere le protagoniste principi del momento. Noi tre tenevamo una birra a testa gentilmente offerta dagli ospiti. Sorseggiavamo con timidezza. Criticavamo le scelte di Lippi e dei giocatori. L’Italia era sotto due a zero con la Slovacchia. Eravamo con un piede fuori dal Mondiale. Uno dei finanzieri seduto al mio fianco, un tipo slanciato e con la faccia butterata sotto la barba di qualche giorno, mi chiese cosa studiavo. Io, per farla breve, risposi cinema e teatro. Lui sorrise e si fece un sorso di birra. “Bisogna studiare ingegneria o fisica” disse con lo stesso tono di un fermo per controllo. Annuii e sospirai e tornai a guardare la partita. Non sarebbe bastato un pareggio per il passaggio del turno ed erano ancora due a zero per la Slovacchia. “Ti piace studiare cinema e teatro?” mi chiese ancora. Ci pensai, Civoli esclamò con dispiacere dopo un tiro sbagliato di Di Natale. “A tratti”. Sorridemmo entrambi. “Non hai la faccia di uno a cui piace studiare”. Bevvi un piccolo sorso dalla mia birra, il su e giù creò uno spessore di schiuma all’interno della bottiglia. Tu invece adori lavorare pensai con sarcasmo, ma non dissi niente: in fondo ci stavano regalando i loro benefit di un pomeriggio feriale.

Uno dei miei compagni ricevette l’sms: il prossimo turno era il suo. L’Italia era due a uno, mancavano una decina di minuti più recupero alla fine. Io e l’altro restammo, in ansia per la nostra Nazionale e completamente dimentichi dell’esame e della probabile figura da fessi che avremmo fatto. Segnò la Slovacchia e poi ancora l’Italia. Tre a due: eliminati, il Sogno Azzurro già finito. Ringraziammo mogi gli impiegati della finanza e ce ne tornammo, tra una sigaretta e una scalinata, davanti alla porta dell’esame. Il mio compagno entrò al penultimo turno, io all’ultimo.

La professoressa aveva la faccia stremata, sbatteva le palpebre in continuazione. Continuava a farmi una brutta impressione. Non capivo se fosse scialba o se fosse severa o, cosa peggiore, se fosse entrambi. Mi chiese della lira e io la confusi con la cetra; sul pianoforte non ricordavo le date importanti, e, infine, mi chiese di uno strumento che era rimasto nascosto tra le 660 pagine del libro. Anch’io, dopo la giornata e la sconfitta dell’Italia, ero stremato, poco motivato a giocarmela. La professoressa mi disse che non poteva promuovermi, io annuii convinto. “Capisco” risposi, con la sola voglia di andarmene a dormire e depennare dal presente l’inutile giornata. “Lei ascolta la musica sulle cuffiette, vero?”. Fissai gli occhi aquilini della professoressa; sembravano intenti a comprendere e mettere insieme strane formule. “Sì…mi capita”. “Perché sembra un po’ rintronato”. Credo di aver stretto le labbra, di aver incanalato il fastidio dell’affermazione in un’espressione perplessa. “Si vede”, continuò la professoressa, “Che ci ha messo impegno, ma che non riesce a…connettere. Tutte queste abitudini, come le cuffiette o…lei legge?” “Ogni tanto.” “Che immagino voglia dire poco. Sa, queste nuove abitudini vi rendono un po’…così. Rintronati, come ho detto.” Pensai Guardi che sta dicendo un mucchio di cazzate: non so niente, sono solo uno scappato di casa formato studente ma lasciai che lei continuasse con la sua tesi, anche e soprattutto perché l’esame avrei dovuto ridarlo. “Quindi secondo me la prima cosa che deve fare è smetterla con le cuffiette e ascoltare la musica da delle casse”. Assecondai con riconoscenza le cure miracolose della professoressa, me ne andai con la promessa che ci saremmo rivisti a breve: lei pronta a promuovermi, io pronto ad innalzare la mia intelligenza oltre i muri infrangibili degli auricolari.

Si era fatta sera, il cielo di Venezia era di un bel rosso romantico. Il giudizio su di me era stato impietoso: faccia svogliata e cervello rintronato. Mi scrisse un amico: “Stasera birra per tirarci su dall’eliminazione?”. Sospirai, risposi “Per forza”. Presi l’i-pod e, diretto alla stazione, schiacciai play su una canzone di un gruppetto indie a caso, mettendo il volume al massimo.