
1.
Mi era stata assegnata la rubrica delle interviste. Dovevo scovare persone dall’innata intraprendenza e perseveranza, animi dediti a sogni d’alto calibro. Poco importava se poi questi sogni venissero effettivamente avverati o si fermassero a metà della loro realizzazione. Secondo il redattore-capo dovevo conferire alla rivista, tramite la mia rubrica, un moto di speranza contagiosa. Che i lettori potessero domandarsi: “Se lui ci prova, perché io no?”.
Ovviamente le idee nobili del redattore-capo luccicavano di nobiltà solo sulla carta. Infatti i sogni d’alto calibro intesi da me –cose come aprire un negozietto senza alcun piano economico strutturato, ma con un’idea radicata e dall’incalcolabile quanto improbabile successo- non combaciavano con i suoi. Uomo dall’aspetto severo, con un mento che ricordava un budino al caramello, e i capelli lunghi e radi -una sorta di eterna volontà tradita nei fatti- tendeva, non solo con la mia rubrica ma con il giornale in generale, a voler rimanere al passo con i tempi, ovvero voleva parlare di tendenze affermate e fare più soldi possibili. Nessun azzardo, nessuna scommessa. Da un lato era pur comprensibile: le riviste e i quotidiani se la passavano male e dovevano dipendere fin troppo da benefattori per niente pazienti con i loro investimenti; bisognava fare cassa e farlo in fretta. Allora mi mandavano da questo nuovo influencer, famoso per i contenuti simpatici sulla sua vita, o da quella ragazza, che aveva mollato il lavoro in favore della mansione di custode del proprio orto. Qualcuno risultava interessante, non lo nego, ma cominciai a notare quanto le interviste si assomigliassero tra loro, copie sbiadite di una matrice comune…Dov’era finita l’unicità tipica degli individui? I colleghi mi prendevano in giro, dicevano che -fosse stato per me- avrei inseguito per sempre i fallimenti accertati ai nastri di partenza. Io cominciai a rispondere, dopo aver parato maldestramente più volte le accuse e aver rimuginato su una replica decente, che inseguivo i successi che li avrebbero fatti tacere. Anche se -lo sospettavo con forza- farli tacere era uno di quei fallimenti accertati ai nastri di partenza.
Avevo scoperto l’esistenza del Valupe Barber Shop passeggiando. Non so se capiti a tutti i giornalisti o sia solo fortuna, ma andando a zonzo per i quartieri della cittadina dove sto –e dove arriva l’interesse limitato del giornale- mi ritrovo sempre in mezzo a qualche curiosità. I colleghi non concordano sulla mia definizione di curiosità, ma penso che si siano dimenticati il valore della pazienza: se hanno bisogno dell’evidenza per riconoscere del potenziale -un potenziale qualsiasi- vuol dire che non hanno la più pallida idea di come riconoscerlo.
Ad attirare la mia attenzione inizialmente fu il suono di una canzone. Camminavo sul lungo fiume, poco prima del ponte di pietra, e non avevo mai sentito gran chiasso sulla sponda opposta della strada, anche perché, da quel che ne sapevo, i caseggiati, una serie di costruzioni a due piani, con le vetrine abbondate al piano terra e le finestre bene in vista al primo piano, erano vuoti da anni. I miei occhi seguirono la fonte del ritmo e finirono per inquadrare un’insegna mai vista fino a due settimane prima. In un font bianco, dai toni eleganti su sfondo nero, imperava la scritta Valupe Barber Shop. Le tre parole erano scritte in colonna e la forma dell’insegna era un ovale verticale. Sotto, la vetrina aveva stampata centralmente la stessa scritta che seguiva sempre una linea tondeggiante, e agli angoli c’erano quattro foto di quelli che avevo immaginato essere dei modelli. All’interno del locale si muovevano due persone, un bianco con dei capelli bruni tendenti al lungo e un nero con la barba fitta e crespa. Attraversai la strada, guidato da una brama simile a quella del pettegolezzo. Agli angoli della vetrina, le foto non ritraevano due modelli ma le stesse persone all’interno. Nelle foto in alto, il bianco aveva i capelli gettati all’indietro e un sorriso da don Giovanni, mentre il nero teneva il broncio e i capelli formavano una sorta di rettangolo sopra la testa. Nelle foto basse, come in un gioco di contrari, il bianco aveva i capelli sparati in aria con del gel e una smorfia di rabbia a labbra contorte, mentre il nero era acconciato con delle treccine strette e ben salde sul cranio, l’espressione sorridente a denti in vista. Non feci in tempo a dare un occhio all’interno –notai appena la pavimentazione scolorita in graniglia- che sentii la musica fermarsi e la porta aprirsi con diiin di cortesia. “Stiamo per aprire. Aveva preso appuntamento?”. A parlarmi era stato il bianco. Aveva una camicia marrone in tono con i capelli. Il viso era ben sbarbato, lo sguardo giovanile tradito dalla pelle ruvida. “No, scusi”, feci un cenno con la mano tra il saluto e, per l’appunto, le scuse. Aggrottai le sopracciglia e chiesi: “Ma avete appena aperto, sì?”. “Da una settimana” confermò l’uomo. Tese la mano, “Piacere, mi chiamo Valerio”. Mi presentai, e lui chiamò alla porta il nero. Si palesò un uomo dalla carnagione come il carbone, i capelli e la barba seguivano un tutt’uno crespo e di media lunghezza. “Piacere, Modupe”. Anche lui vestiva con una camicia marrone -forse la divisa da lavoro scelta. “Beh, se ha bisogno di un barbiere, noi ci siamo” disse Valerio. Sorrisi e li salutai, garantendogli che li avrei contattati alla prima occasione utile. Il caso voleva che il mio barbiere di fiducia avesse chiuso baracca e burattini da qualche mese, e che io vagassi da un consiglio di un amico all’altro senza mai troppa convinzione. La mia chioma grigio-castana, leggermente diradata sul frontale, reclamava una sana dose di stabilità.
Ovviamente la domanda me la feci. Un nero e un bianco? Insomma, abbiamo…abbiamo capelli così diversi, mi ricordo che pensai. Mi sarei fatto tagliare i capelli da un nero? Certo che sì…se mi avesse fatto pagare la metà di un barbiere bianco. Funzionava così, no? C’erano i barbieri seri e gli etnici. Non è mica una questione di razzismo, conclusi tra me e me, ma di palese…conformazione della società. Tornando a casa dalla passeggiata decisi che comunque una prova al Valupe Barber Shop andava fatta. Solo per vedere come avevano intenzione di portare avanti il negozio: diciamo per professionale curiosità.
Prenotai per le dieci della mattina del mercoledì successivo, la mia mezza giornata libera. Superai l’uscio e venni accolto sempre da Valerio. Modupe stava tagliando i capelli ad un ragazzo di colore, un probabile diciasettenne o giù di lì, con le labbra gonfie e lo sguardo tendente al timido offeso. Notai che il negozio aveva tre belle poltrone di pelle marrone disposte in fila lungo dei classici specchi alti quanto le pareti. Due divanetti, dello stesso marrone delle poltrone, formavano la sala d’attesa insieme ad un tavolino di vetro con sopra riviste su barbe e capelli. Poggiai la giacca sull’attaccapanni. La luce, pur mantenendo un buon grado di intensità, era stranamente soffice. Valerio mi chiese se avessi bisogno di uno shampoo e, anche se di solito mi davo una lavata a casa, quella volta, dato che era la mia prima volta e dato che avevano appena aperto, dissi di sì. Indicò con la mano e un sorriso il lavello, posto appena dopo le tre poltrone. Per un po’, il tempo che l’acqua calda penetrasse attraverso il cuoio cappelluto e mi desse quella sensazione di brivido da tepore, non parlammo. Vidi due diplomi ben incorniciati -i nomi in font nobili di Valerio e Modupe- appesi su uno scorcio di parete libero dagli specchi e dai vari cassetti dove erano riposti, immaginavo, i ferri del mestiere. Valerio fece partire la musica, una canzone inglese un po’ trombe un po’ elettronica, e, appena tornato a massaggiarmi i capelli, gli domandai la prima cosa che mi venne in mente: “Come vi siete conosciuti?”. Le parole in tono amichevole da racconto di Valerio si inserirono tra il sottile rumore delle forbici e l’imponente profumo di shampoo.
Voleva fare il barbiere da quando aveva sui sei o sette anni. Lo zio aveva aperto l’attività nella zona appena fuori dal centro, vicino all’ospedale, e Valerio passava molti pomeriggi dopo scuola a studiare lì. La verità era che non finiva a studiare le addizioni o la grammatica, ma le mosse eleganti e sicure con i pettini e le forbici, ascoltando i discorsi mai stanchi dei clienti. Ottenuto il diploma di perito elettronico, su volere di sua madre, si era iscritto di corsa ad una scuola professionale per barbieri. Imparò qualche dritta, non molte, perché la maggior parte era già stata sviscerata negli anni dell’infanzia. Venne assunto in un salone a Milano e cominciò la sua carriera da dipendente. Appena poteva, seguiva i corsi di aggiornamento e le classi di specializzazione. Ad interessargli erano proprio i capelli, in ogni loro forma e lunghezza. Si cimentò anche nei tagli femminili e divenne un esperto nel ridefinire la barba. Tornò alla cittadina per rilevare l’attività dello zio, ormai pronto alla pensione. Le cose andavano bene, Valerio non si poteva lamentare, ma si accorse che aveva ancora un buco nella preparazione -si accorse, da totale appassionato, di averne molti-: i tagli o le acconciature definite afro. Deciso a riempire il buco, si informò se ci fossero botteghe di barbieri africani nel giro della cittadina, ma non ce n’era nemmeno una. Scoprì, parlando con una serie di persone della comunità nera insediatasi dopo anni di insistente immigrazione clandestina, che il migliore barbiere della zona, uno che tagliava i capelli casa per casa, rispondeva al nome di Modupe.
A questo punto venni messo sulla poltrona più a sinistra, pronto a farmi dare una sfoltita ai capelli ancora umidicci nonostante i colpi insistenti di phon. Valerio aveva le forbici in mano, le azionava come per riscaldamento. Modupe si fece pagare dal ragazzo nero alla cassa, lo salutò con una pacca sulla spalla, e si mise, asciugamano tra le mani, alla mia destra. Divenne lui il narratore ufficiale della storia, cedendo il ruolo di spalla a Valerio.
Era nato in Camerun, ed era stato un ottimo studente fino all’età dei sedici anni. Poi, complice l’idea delle grandi opportunità nel mondo occidentale piuttosto che nella scuola, una scuola che era tutto dire, un ammasso di cemento senza porte nella zona est della capitale Yaoundè, i genitori lo spedirono in Europa. Viste le difficoltà d’attraversata del Mediterraneo, Modupe aveva considerato il viaggio in aereo un lusso. Appena atterrato e sistematosi in un quartiere periferico di Monaco, i lussi finirono. Visse i primi tempi con il cugino di secondo grado della madre che faceva il lavapiatti in un ristorante. Modupe abbandonò gli studi e passò da un lavoretto all’altro, senza mai trovare continuità. In un’estate abbastanza vuota in termini d’impegni, passò i pomeriggi a tenere compagnia al barbiere del quartiere, il signor Khamisi. Era il classico “negro buono”, disse Modupe sorridendo. I capelli e la barba grigi sulla pelle ancora liscia, il corpo slanciato ma magro, e, come capo d’abbigliamento prediletto, una serie infinita di camicie a maniche corte dalle righe colorate. Similmente allo zio di Valerio, Khamisi gli insegnò le tecniche di taglio con grande costanza e, soprattutto, pazienza. Sapeva quanto poco potesse interessare il mestiere ad un ragazzo, ma allo stesso tempo sapeva quanto potesse tornargli utile. Cominciarono a muoversi in coppia, come un giocatore di golf con il suo caddy. Si trasferirono in Francia e poi in Italia, a Roma, e continuarono l’attività di domicilio in domicilio. Capitò, come a volte capita quando la scelta non si ramifica in mille opzioni e si ha un buon insegnante, che la passione abbracciò con affetto la professione. Pronto al grande salto, ovvero passare dallo status di assistente a quello di barbiere ufficiale, si trasferì nella cittadina, dove, tramite un passaparola lesto, era venuto a sapere che la posizione risultava vacante. La comunità nera non ci mise molto a riconoscere a Modupe un buon tocco con ogni tipo di acconciatura, dalle treccine all’utilizzo creativo della piastra. Quando Valerio venne a cercarlo e gli spiegò il motivo dell’incontro, mi sembrò di capire che Modupe provò due sentimenti ben distinti e in superficie contrastanti. Da un lato una certa fierezza per la nomea raggiunta, dall’altro si insinuò un sibilo di diffidenza e senso d’inferiorità nei confronti del classico uomo bianco che cerca di non farsi mai i fatti suoi. Il miscuglio emotivo portò ad una proposta da parte di Modupe: lui avrebbe insegnato a Valerio l’arte dei tagli afro, e Valerio, in cambio, gli avrebbe insegnato le tecniche per acconciare i fini e lisci e inconsistenti capelli da uomo bianco.
Valerio si dava da fare con le forbici alla sinistra del mio viso. Modupe, dopo un immediato diiin della porta, accolse quello che sembrava un vecchio amico. Si abbracciarono, l’amico portava una giacca sgargiante, i jeans larghi sulle cosce e i capelli erano raccolti in piccoli dread di media lunghezza. Era nero: certo. Mentre loro presero a ridere di molte cose lampanti e chiare solo nei loro gesti, Valerio tra un elegante movimento di polso e uno studio accigliato della situazione, continuò dal punto in cui eravamo rimasti. La proposta.
Accettò. E cominciò così la loro collaborazione. Insieme finirono per iscriversi anche ad un paio di concorsi. I diplomi sulla parete ne attestavano la partecipazione, le targhette nascoste in uno dei cassetti ne riconoscevano i meriti. Inizialmente solo Modupe ne trasse un qualche risvolto economico, provando ad inserirsi nell’inesistente mercato dei barbieri a domicilio per bianchi. Poi, quando Valerio ebbe messo via una cifra sufficiente per spostare la bottega nel centro cittadino, coinvolse Modupe nel progetto. Modupe non si tirò indietro, e anzi, investì più di quanto Valerio credeva si potesse permettere.
Avrei voluto chiedere loro se avessero pensato –difficile immaginare il contrario- alla questione delle culture diverse e a come combinare le conseguenze sulla carta poco vantaggiose: i neri avrebbero pagato di più un taglio, e i bianchi avrebbero pagato un prezzo pieno per farsi tagliare i capelli da un nero. Almeno, se entrambi fossero intenzionati a mettere in campo i frutti della collaborazione. Poteva sembrare un’osservazione razzista ma ero a conoscenza del regime di diffidenza che imperava un po’ ovunque, bianchi o neri che fossero. In ogni caso, proprio perché era un argomento su cui la scivolata era fin troppo a portata, e per la presenza del cliente nero al mio fianco sulla cui nuca Modupe stava per applicare lo zzzz immortale del rasoio elettrico, lasciai perdere. Ringraziai, pagai, Valerio mi strinse la mano e mi disse: “Quando vuoi, siamo qua”.
2.
Provai ad organizzare un’intervista ma il capo-redattore non mi diede il via libera. “A chi vuoi che interessi. È una storia come un’altra, non una notizia con la N maiuscola” rispose, e mi cacciò invitandomi ad organizzare un incontro con un influencer che aveva sforato un tot numero di followers, mettendo su Instagram i video del suo cane cieco. Tornando alla mia postazione (in realtà la mia postazione è un concetto un po’ sorpassato, le scrivanie della redazione sono bianche, impersonali e senza assegnazioni o compagni di banco fissi) i colleghi mi dissero che mi serviva qualcosa –un evento, una manifestazione…un’aggressione, perché no?- di più forte per temi come il razzismo. Io cercai di spiegargli che, in fondo, il razzismo c’entrava ben poco. Il mio interesse era più legato alla discussione sulle culture, sul loro incontro e sulle inevitabili difficoltà dell’incontro. Loro dissero che sarebbe stata meglio una bella scazzottata Tyson-Hulk Hogan, e che quando mi ci mettevo ero davvero pedante.
Continuai ad andare a tagliarmi i capelli al Valupe Barber Shop. Capitò, per una serie di classici imprevisti quotidiani del lavoro, che a tagliarmi i capelli fosse Modupe e non Valerio. “Preferiamo, come posso dire…Non mischiare. Sai, già stiamo qui nello stesso posto. Non vorremmo esagerare, non so se mi spiego” diceva sempre Valerio, come per scusarsi, e poi sottolineava che, con alcuni clienti, si permettevano di mischiare. Aggiungeva spesso che un giornalista è sicuramente aperto su questo tipo di cose. Da parte mia non sapevo quanto fossi realmente aperto -pensavo tanto ma a volte capitano fatti che mostrano le persone per quello che sono senza false autoillusioni- e sapevo quanto poco bastasse per far cambiare opinione a Valerio: sarebbe stato sufficiente presentargli qualche mio collega.
Mancava poco a Natale, forse era un novembre con il suo grigiore persistente, e alla bottega mi diedero la bella notizia. Il Valupe Barber Shop aveva vinto un concorso a Milano. Mi fecero vedere la targhetta, che avrebbero messo sopra il piano, tra i rasoi e la schiera di pettini di diverse misure che quasi ricordavano una famiglia numerosa. L’occasione -ci vollero pochi secondi perché mi si accendesse la lampadina- era finalmente arrivata, a portata di mano e di penna. “Vi va se facciamo un’intervista per il giornale?” chiesi. Con un premio in tasca, soprattutto in un concorso nella fervente Milano, il capo-redattore avrebbe cancellato qualsivoglia resistenza. Valerio e Modupe, pettini in mano, alzarono le spalle con la stessa sintonia di una coppia da sit-com. Si guardarono. “Perché no?”.
Ottenuto il permesso dalla redazione, incassata la battuta di Giovanni, un mio collega della cronaca, un tizio con gli occhiali fini e lo sguardo tra il simpatico e il pazzo, che aveva commentato ad alta voce: “…La prossima volta perché non intervisti il mio vicino che ha aperto da poco un tabacchino?”, chiamai il Valupe e, una volta accordati sulla disponibilità, mi ci fiondai.
Mentre Valerio tagliava i capelli ad un uomo anziano, il viso lungo e un sorriso abbozzato come mummificato, e Modupe segnava le basette ad un nero anche lui anziano, con il viso come aspirato del grasso e gli occhi gonfi come biglie, ripercorremmo in sommi punti la storia del premio e dei barbieri. I due clienti sembravano interessati, conversavano con noi e tra loro, in una grande ed infinita discussione a cinque, con me nel ruolo chiave del testimone più che del partecipante. Prendevo appunti e domandavo, rilanciavo a prendevo appunti. Domandai delle differenze dei tagli tra etnie, e ancora delle difficoltà che avevano incontrato. Modupe disse che la cosa più difficile era raccogliere in delle treccine i capelli di un bianco. Ci sono i capelli ricci, e con loro si va meglio, ma con i capelli lisci…un disastro! Infatti, confessò, non sopportava fare dei tagli neri ai bianchi. Anche Valerio confermò la stessa avversione per l’opposto, ma mi pregò di non scriverlo. Ridemmo un po’ tutti. Si era creata una bell’atmosfera. Domandai se avessero pensato al razzismo, se avevano messo in conto delle diffidenze o, peggio ancora, dell’odio vero e proprio. “No, non molto” disse Valerio mentre rifiniva la nuca dell’anziano, che si era presentato come Ferdinando. “Più che altro,” aggiunse Modupe, che con la forbice sembrava tagliare l’aria appena sopra la nuvola grigia di -avevamo fatto le presentazioni complete- Afi, “Abbiamo pensato che, se proprio si fosse creato qualcosa, sarebbe stato…potenzialmente utile. Insomma, diciamocelo, ai bianchi non piacciono troppo i neri e ai neri non piacciono troppo i bianchi, e molti rimangono della loro idea, ok? Ma guarda adesso. Siamo in una situazione…neutra? Ed è solo per il lavoro…ok, togliamo tu, che sei qui per un’intervista, ma siamo due bianchi e due neri.” “Nello stesso spazio, per un certo tempo” aggiunse Valerio. Mi sembrò una risposta interessante. Non partire dai grandi temi, come l’integrazione o la questione razziale, ma dai piccoli, come il taglio dei capelli dal barbiere, per risolvere le grandi questioni come -appunto- l’integrazione o il razzismo. Aveva un che di originale, come piaceva a me, e molto di improbabile, come amavo.
L’articolo uscì la settimana successiva. Come sempre era finito nelle pagine in fondo, quelle dedicate in larga parte alla pubblicità. Non avrebbe avuto grande riscontro in ogni caso, perché le chiacchiere e la conseguente prima pagina del giorno era stata dedicata ad un fattaccio, una rissa tra un immigrato e un controllore dei treni sulla linea locale. L’articolo l’aveva curato Giovanni, che, nella mattinata d’uscita del giornale, si era lasciato andare ad una filippica sul trattamento violento riservato ai poveri poveri uomini di Colore con la C maiuscola. Allora gli aveva risposto Filippo, il responsabile marketing, dicendogli che in realtà i poveri poveri uomini di Colore fanno quello che vogliono in barba alle regole, danneggiando alla fine dei conti i poveri poveri Italiani con la I maiuscola. Ne nacque un bel parapiglia, di cui, come al solito, feci da testimone. Da testimone totale questa volta, eliminando ogni particella di partecipazione. Osservando la lotta dialettica innescata, mi domandai se non fosse che alla fine siamo tutti interessati a combattere le grandi problematiche sociali senza risolverle. Combatterle almeno ci identifica, ci posiziona in un’idea che in cambio ci dona rappresentanza e orgoglio. Risolverle ci lascerebbe vuoti, e senza un facile copione da divulgare in nome dell’idealismo o del pragmatismo. Forse vivremmo in un mondo migliore, un mondo dove bianchi e neri si interessano di capelli, delle loro naturali differenze, e si preoccupano di come tagliarli e acconciarli al meglio…ma, diciamoci la verità, a chi importa davvero di un mondo migliore?